Almeno in un paio di occasioni, nell’ultimissimo periodo, dal Cremlino sono venute risposte indirette alle ipotesi d’oltreoceano di poter tranquillamente ricorrere all’arma nucleare contro la Russia, sicuri che Mosca rinuncerebbe in ogni caso a rispondere.
Lo scorso 20 giugno, ricorda Sergej Ishchenko su Svobodnaja Pressa, è stato lo stesso Vladimir Putin a parlare della probabilità di cambiamenti nella dottrina nucleare russa, in relazione alla comparsa di «nuovi elementi, legati all’abbassamento della soglia di impiego dell’arma atomica», elemento su cui «sappiamo stia lavorando il probabile nemico».
Si tratterebbe di ordigni nucleari a bassissima potenza (meno di un kton) e Mosca sa, ha detto Putin, che in determinati ambienti occidentali circolano idee secondo cui tali mezzi di distruzione potrebbero essere utilizzati «e in ciò non ci sarebbe nulla di particolarmente terribile».
A fine giugno è tornato sul tema il vice Ministro degli esteri Sergej Rjabkov, dichiarando che le condizioni createsi con il conflitto in Ucraina dimostrano la necessità di «apportare correttivi e aggiunte di principio alla dottrina nucleare» russa, soprattutto in relazione a future «situazioni di ulteriore escalation da parte dei nostri avversari».
Gli osservatori ipotizzano che al Cremlino si stia pensando di cancellare alcune delle restrizioni impostesi volontariamente in passato sull’uso del proprio potenziale nucleare. È appena il caso di ricordare che, per comune ammissione, la Russia detiene il più potente arsenale di missili balistici strategici intercontinentali e anche il maggior numero di testate nucleari tattiche (a bassa e media potenza) del pianeta.
Ora, dicono gli osservatori, è possibile che gli avversari si gongolino sull’idea che Mosca, come non l’ha mai avuta ai tempi dell’URSS, nemmeno ora abbia l’intenzione di ricorrere a tali armi, che si sono sono rivelate inutili nella pratica bellica, dato che, dicono oltreoceano, nessuno in Russia oserà mai ricorrervi.
Ed è così, conclude Ishchenko, che a ovest si era dato il via ai preparativi per un attacco nucleare alla Russia, relativamente “sicuro” per la NATO. Nel 2018, Politico riportava che gli USA intendevano realizzare testate nucleari miniaturizzate a bassissima potenza: armi compatte e poco costose, ma tali da poter infliggere danni strettamente locali nelle azioni di una guerra estesa. Si tratterebbe cioè di esplosivi di capacità intorno a 0,001 chilotoni, o un massimo di 1 tonnellata di TNT equivalente, destinati a liquidare reparti in fase di avanzata o di difesa, in limitati settori del fronte e, al tempo stesso, contaminare piccoli segmenti di terreno: tali insomma da non provocare una rappresaglia russa con armi strategiche.
Nulla di completamente nuovo: già tre o quattro decenni fa, sia URSS che USA detenevano quelle che all’epoca si chiamavano bombe atomiche portatili, portate a zaino da sabotatori e ricognitori, che le avrebbero lasciate nelle retrovie nemiche.
Ma già prima, a metà anni ‘60, in USA erano state messe a punto quattro varietà di mini-bombe: le SADM, o Special Atomic Demolition Munition, con potenza esplosiva da 10 tonnellate di TNT equivalente al chilotone. Si trattava di una sorta di cilindri di 40 cm di diametro e 60 cm di altezza, del peso dai 26 ai 70 kg, trasportabili quindi da due-tre uomini. A questi, l’URSS contrapponeva le RA41, RA47, RA97 e RA115, oltre ai cosiddetti “zaini atomici” RJa-6, del peso di 25 kg e potenza fino a un chilotone.
Finché nel 1994, ricorda ancora Ishchenko, il Congresso vietò la fabbricazione delle cosiddette “suitcase nuke” a bassissima potenza e, da allora, la questione era rimasta abbastanza in sottordine, quantomeno a livello di media.
E dunque, il fatto che a Mosca si sia tornati a parlare di rivedere la dottrina nucleare, aggiornandola, in particolare, a tali tipi di armi, potrebbe perlomeno aver a che vedere con il semi via libera concesso da Washington a Kiev all’ampliamento dei limiti degli attacchi contro il territorio russo, nel caso che Mosca, dice l’assistente del Segretario di stato per l’Europa James O’Brien, «cercherà di allargare il fronte oltre Khar’kov». Prima di O’Brien, il portavoce del Pentagono Patrick Ryder, aveva proclamato la “legittimità” degli attacchi ucraini alla Crimea con armi americane: «la nostra politica riguardo all’uso di armi a lungo raggio contro la Russia non è cambiata e tali armi devono essere usate all’interno del territorio sovrano» dell’Ucraina, fra cui, a detta di Ryder, rientra la Crimea.
Per quanto riguarda poi la “distanza” dei colpi che Kiev può portare al territorio russo, a detta del politologo Ivan Mezjukho, di fatto Washington non si è mai espressa contro attacchi ucraini a regioni russe lontane dal confine con l’Ucraina. Oggi, gli USA si sono messi a mercanteggiare con la Russia: intendono creare una situazione per cui Mosca «non possa ulteriormente avanzare sulla linea del fronte e gradualmente avvii negoziati con la parte ucraina. Naturalmente, si tratta di un’ingenuità da parte della Casa Bianca. L’iniziativa è oggi in mano alle forze russe».
Oltre che ingenuità, ci permettiamo di aggiungere, si tratta anche di uno scenario visto e rivisto: per non andare troppo indietro nel tempo, basti ricordare i “Minsk-1” e “Minsk-2”, dopo le cocenti sconfitte ucraine nell’autunno del 2014 e a 2015.
Se poi si vuol andare un po’ più a ritroso nel tempo, ci si ricordi di quell’osannato “idealista” di Woodrow Wilson, che nel 1919, con l’obiettivo di soffocare la giovane Russia sovietica, approvava dapprima le raccomandazioni dell’inviato yankee in Russia William Bullitt, di sospendere l’intervento armato e concludere demagogicamente una «pace con la rivoluzione», per strangolarla col blocco economico, salvo poi, appena giunte dalla Siberia notizie su «l’avanzata dell’esercito siberiano contro i bolscevichi. Il governo di Kolchak è ora più forte che mai, il suo potere sta crescendo», abbandonare immediatamente ogni ipotesi della trattativa che, tra l’altro, era stata proposta proprio dagli yankee, che avevano invitato rappresentanti sovietici e guardie bianche alle isole dei Principi, sul mar di Marmara, quando l’Esercito Rosso era in avanzata su tutti i fronti.
Nella situazione attuale, il disco verde della Casa Bianca ad attacchi ucraini in profondità sul territorio russo, rischia di provocare una risposta di Mosca tale che per gli USA l’Ucraina quale piazzaforte d’attacco sarebbe definitivamente persa. Al contrario, afferma Mezjukho, l’obiettivo di Washington è proprio quello di conservare per sé quel baluardo a qualunque costo.
Diverso parere esprimono rappresentanti delle milizie della LNR: a Lugansk si dicono convinti che quanto più peggiorerà la situazione delle forze di Kiev, tante meno limitazioni le verrano poste dai suoi fornitori di armi.
A partire dal 2014, l’Ucraina, incapace di ottenere vittorie al fronte, sta conducendo una guerra terroristica contro la popolazione civile e le armi che l’Occidente le fornisce servono proprio a questo, dice lo storico Aleksandr Dmitrievskij. Inoltre, gli attacchi alla Crimea e l’approvazione accordata da Washington, indicano che l’obiettivo è soprattutto quello di sondare le difese russe.
A questo punto, se i tanto decantati razzi anticarro “Javelin” o i droni “Bayraktar”, che avrebbero dovuto cambiare le sorti del conflitto, si sono dimostrati così inefficaci, come prospettano di esserlo i caccia F-16 che con ogni probabilità l’aviazione russa distruggerà al suolo, perché non tentare la strada dei gruppi di sabotatori armati con le nuove SADM? Si è così sicuri che Mosca non risponderà per le rime?
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