Un uomo è stato ucciso mercoledì 10 luglio dalla polizia in Nuova Caledonia, portando a dieci il numero di morti dall’inizio dell’insurrezione popolare contro il neo-colonialismo francese nell’arcipelago del Pacifico meridionale.
I fatti sono avvenuti a Saint-Louis Kanak, a est dell’area urbana di Nouméa e a sud dell’isola principale, ha dichiarato la procura di Nouméa secondo quanto riportato dall’agenzia stampa AFP, senza fornire ulteriori dettagli sulle circostanze.
La vittima è stata colpita da un colpo di ritorno a distanza sparato da un gendarme del Gruppo di intervento della Gendarmeria nazionale (GIGN) – i reparti speciali della Gendarmerie –, durante un’operazione di sgombero di una strada, secondo una fonte vicina alle indagini. Mentre i gendarmi venivano bersagliati dagli spari, il GIGN, impegnato a sostenere l’operazione, ha individuato l’uomo armato e ha risposto al fuoco, secondo la versione trasmessa da questa fonte.
Secondo una seconda fonte vicina alle indagini, i gendarmi erano impegnati in un’operazione di arresto degli autori degli spari, molto frequenti in questa tribù, quando sono stati attaccati.
L’arcipelago è in una situazione di instabilità permanente dal 13 maggio, da quando una vera e propria rivolta popolare è passata da mobilitazioni di massa pacifiche contro la proposta di riforma del corpo elettorale – coordinate dalla CCAT – a forme di lotta più radicali una volta che la legge è stata approvata.
Questa proposta di legge costituzionale, accusata giustamente dal movimento pro-indipendenza di emarginare il peso della popolazione indigena Kanak, è stata sospesa dal presidente Emmanuel Macron a giugno, appena tre giorni dopo lo scioglimento dell’Assemblea nazionale francese.
Ma fronte indipendentista in tutte le sue sfaccettature ne chiede il ritiro come pre-condizione per avviare il dialogo politico.
Le elezioni europee, ed i due turni delle elezioni politiche anticipate si sono svolte con pesanti restrizioni ed un alto livello di militarizzazione dell’arcipelago.
La ribellione continua e le tensioni sono tornate a salire in seguito a un’ampia repressione dei gruppi pro-indipendenza iniziata il 19 giugno, sette dei quali sono stati posti sotto custodia cautelare e deportati in Francia.
Da quei giorni, gli scontri tra i giovani kanak e la polizia si sono intensificati intorno al ponte di Érudits, nei quartieri di Koutio, Magenta, Portes-de-Fer, ecc. Nel nord di Nouméa è stata incendiata una stazione di polizia, seguita da una scuola, gli scontri si sono poi diffusi nel resto della Nuova Caledonia.
“Queste deportazioni politiche sono pratiche coloniali già utilizzate in passato”, afferma Dominique Fochi, segretario generale dell’Union calédonienne (UC), il principale partito indipendentista, che ha istituito il CCAT nel novembre 2023 prima di includere altre organizzazioni politiche e sindacali.
Delle undici persone incriminate, nove sono state sottoposte a custodia cautelare – sette delle quali in Francia continentale – “a causa della delicatezza del procedimento e per consentire il proseguimento delle indagini in modo sereno, libero da qualsiasi pressione o collusione fraudolenta”, secondo il procuratore della Nuova Caledonia, Yves Dupas. Tra questi Christian Tein, leader del CCAT, e Frédérique Muliava, capo del personale di Roch Wamytan.
L’indagine è stata condotta dalla sottodivisione antiterrorismo, anche se il procedimento non riguarda il terrorismo ma la lotta alla “criminalità organizzata”, insiste il magistrato. Si è inoltre basato su testimonianze e “elementi tecnici” per affermare che i dirigenti del CCAT avevano “definito, preparato, pianificato e attuato un piano d’azione violento con l’obiettivo di destabilizzare il Paese”. Accusati di sette reati, tra cui “complicità in tentato omicidio” e “partecipazione a un’associazione a delinquere finalizzata alla preparazione di un crimine”, gli imputati rischiano l’ergastolo.
“I leader del CCAT non sono affatto gli istigatori di atti di violenza, ma i martiri di oggi della giustizia coloniale”, sostiene Daniel Goa, presidente dell’UC, per il quale le violenze del 13 maggio sono lo sfogo di una gioventù arrabbiata. L’Union nationale pour l’indépendance (Uni), il secondo gruppo pro-indipendenza del Congresso della Nuova Caledonia, che si è tenuto lontano dal CCAT, è più sfumato.
“Spetterà all’inchiesta stabilire se le accuse penali sono giustificate o meno”, afferma Jean-Pierre Djaïwé, che tuttavia denuncia “una totale sproporzione nelle scelte procedurali dei magistrati, a partire dalla decisione di inviare in Francia persone che avrebbero potuto benissimo essere detenute sul territorio”.
La restituzione dei sette “prigionieri politici” viene ora legittimamente posta come ulteriore condizione per una tregua duratura delle proteste, la prima richiesta non essendo stata soddisfatta dal Presidente della Repubblica.
“Dove e quando un territorio della Repubblica francese non è riuscito per sette settimane a garantire la sicurezza di 280.000 abitanti, l’equivalente di una città come Strasburgo? Dove e quando la Francia ha permesso che uno dei suoi aeroporti internazionali diventasse inoperoso e che una regione perdesse un quarto dei suoi posti di lavoro in un colpo solo? Da nessuna parte in tempi moderni, a parte la Nuova Caledonia” afferma Nathalie Guibert, giornalista di Le Monde in un articolo scritto a ridosso delle elezioni politiche anticipate.
“Dal 13 maggio sono stati sgomberati 3.000 veicoli incendiati utilizzati come posti di blocco, sono state arrestate 1.520 persone (115 deferite alla giustizia) e sono state saccheggiate 200 case. Ufficialmente, 800 aziende hanno fatto richiesta di lavoro ridotto per 10.000 dipendenti a causa delle violenze” scrive in un bilancio parziale Guibert rispetto a ciò che è accaduto nell’arcipealago.
Il clima è quello di una vera e propria guerra civile di cui il presidente Macron porta ogni responsabilità, un dossier che dovrà essere una delle urgenze di qualsiasi governo che entrerà in carica.
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