Lo sciopero dei lavoratori portuali che aveva messo a rischio la filiera di approvvigionamento degli Stati Uniti si è concluso giovedì sera. Il sindacato che rappresenta decine di migliaia di lavoratori portuali della costa orientale e l’industria delle spedizioni ha annunciato giovedì sera di aver raggiunto un accordo provvisorio sui salari e di aver esteso il contratto scaduto fino al 15 gennaio.
Sul piano strettamente salariale l’accordo sembra essere decisamente vantaggioso, visto che prevede aumenti nell’ordine del 60% – spalmati su più anni – per una categoria che già oggi vanta stipendi tra i più alti d’America. I lavoratori caricano e scaricano container nei porti lungo la costa orientale (quella atlantica) e il Golfo del Messico, un canale fondamentale per merci di larghissimo consumo, tra cui automobili e banane.
I loro colleghi della costa del Pacifico, lo scorso anno, erano riusciti sì a rinnovare il contratto, ma con conquiste assai inferiori.
La rapida conclusione della vertenza ha messo in luce diversi fattori decisivi che la rendono probabilmente unica e ben poco replicabile. L’aspetto fondamentale è la tempistica: in particolare la vicepresidente Kamala Harris, impegnata contro Trump nelle presidenziali Usa da qui ad un mese, aveva bisogno di tutto il sostegno sindacale possibile ma non poteva permettersi uno sciopero prolungato che avrebbe preoccupato troppo gli elettori.
Questo ha fatto sì che Biden si attivasse per fare pressione sulle compagnie di navigazione affinché raggiungessero un accordo. Anche questo intervento risulta piuttosto straordinario, vista la storica impostazione della politica Usa – compresa quella “democratica” – totalmente a favore delle imprese.
Non a caso anche Trump era intervenuto “a fianco dei lavoratori” accusando le compagnie di “scarso patriottismo”, visto che in questi giorni tutta l’area era sotto stress per gli uragani (Helene e non solo).
Ma anche qui ha giocato un fattore straordinario e inconsueto: le compagnie interessate sono quasi tutte di proprietà straniera, “grazie” alle delocalizzazioni contrattuali favorite per un trentennio al fine di contenere i costi delle importazioni (lo scarico e avvio delle merci sul mercato interno incidono ovviamente sul prezzo finale).
Dunque le compagnie non hanno modo di muovere proprie leve politiche, come avviene invece nei comparti dove “i padroni” sono quasi tutti di nazionalità statunitense.
C’entra qualcosa anche la discussa e discutibile figura di Harold Daggett leader del sindacato ILA, descritto come personaggio sicuramente fumantino e dalla retorica “populista”, che aveva minacciato interruzioni della catena di fornitura per oltre un anno e attaccato le compagnie di navigazione con sede in Europa e Asia.
Peccato che il suo stipendio sindacale sia decisamente alto, ed i suoi hobby gusti altrettanto decisamente costosi, al punto da scatenare l’invidia addirittura di Eleon Musk che su X ha scritto “Questo tizio ha più yacht di me”. Inutile dire che più volte, in tempi recenti, dietro di lui è comparsa l’ombra lunga della mafia, spesso “interessata” a giocare un ruolo anche nelle vertenze sindacali.
Insomma, questa non sembra una vertenza – per quanto vittoriosa – destinata a innescare un nuovo ciclo di lotte sindacati negli Usa, al contrario di quel che ha significato il rinnovo del contratto nelle principali fabbriche di automobili.
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