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Arrestato il presidente della Corea del Sud. Per ora.

Il presidente della Corea del Sud, Yoon Suk Yeol, è stato infine arrestato nella notte. Verso le 2:30 ora italiana (nella penisola dell’estremo oriente era metà mattinata), è stato eseguito il mandato di cattura del politico, posto sotto impeachment per sovversione e abuso d’ufficio dopo che lo scorso 3 dicembre aveva imposto la legge marziale, con la scusa dei contrasti sull’approvazione della legge di bilancio.

Per quanto sia vero che il Partito del Potere Popolare, a cui appartiene Yoon Suk Yeol, governa il paese senza avere però la maggioranza in parlamento, il messaggio inviato con una misura di guerra sembra un po’ troppo forte rispetto a una normale dialettica da sistema democratico.

Sappiamo bene, tuttavia, che la Corea del Sud, a lungo vera e propria occupazione di Washington, alla democrazia non è abituata, avendo attraversato decenni tra un colpo di stato e l’altro. Per quanto l’arresto di questa notte segni un punto di svolta ulteriore: è la prima volta che un presidente in carica finisce in manette.

L’anticorruzione di Seoul ha specificato che non si è trattato di un atto volontario: il presidente del paese non si è consegnato, ma è stato arrestato dalle forze dell’ordine. Questa volta le sue guardie non si sono opposte, a differenza di quando, al primo tentativo di prelevare Yoon Suk Yeol lo scorso 3 gennaio, avevano dato vita a sei ore di scontri.

Al primo interrogatorio ha deciso di avvalersi della facoltà di non rispondere, mentre un video preregistrato, diffuso appena dopo essere stato portato via dal palazzo presidenziale, ha dato spiegazione del perché questa volta abbia deciso, se non di collaborare, per lo meno di non opporsi all’arresto.

Non riconosco l’indagine in corso“, ha chiarito immediatamente. “In qualità di presidente, la mia decisione di rispettare tali procedure illegali e non valide non è un riconoscimento ma piuttosto la volontà di prevenire incidenti spiacevoli e spargimenti di sangue“: un messaggio molto pesante, e che fa intendere che la vita politica del paese è tutt’altro che tornato nell’alveo costituzionale.

Per il Partito Democratico Sudcoreano, all’opposizione, l’arresto “è il primo passo verso il ripristino dell’ordine costituzionale, della democrazia e dello Stato di diritto“. Yoon Suk Yeol, invece, ha affermato che “lo Stato di diritto in Corea del Sud è completamente crollato“.

Come se non bastasse il fatto che, sostanzialmente, un potere non ancora destituito ma certamente sospeso dall’impeachment è protetto da una guardia personale, che non risponde al mandato del parlamento. E che migliaia di suoi sostenitori si erano letteralmente accampati al palazzo presidenziale per impedire l’intervento della polizia: la polarizzazione del paese è evidente.

La vicenda, dunque, è tutt’altro che chiusa. Ora Yoon Suk Yeol si trova in stato di fermo per le prossime 48 ore, durante le quali verrà sottoposto a interrogatorio (anche se, come detto, ha già rifiutato di collaborare al primo di questi). Al termine di questo lasso di tempo, gli investigatori dovranno decidere se rilasciarlo o spiccare un mandato di cattura per un massimo di 20 giorni.

Nel frattempo, la Corte costituzionale sudcoreana continua a esaminare la decisione di destituire il presidente, votata dall’Assemblea nazionale il 14 dicembre. E ha tempo addirittura fino a giugno per pronunciarsi, rischiando di trascinare la questione per mesi e mesi, durante i quali la normale dialettica politica sarà determinata da questa situazione di eccezionalità.

Si tratta insomma di una vicenda ancora in itinere, la cui conclusione non è scontata. Del resto, è impensabile che Yoon Suk Yeol abbia optato per la legge marziale come risultato di una follia momentanea. Un atto del genere, per quanto potrebbe finire senza ripercussioni legali per nessuno, ha sicuramente delle ragioni politiche profonde, che trovano condivisione in importanti pezzi dello stato.

E certamente anche fuori da esso, dall’altra parte del Pacifico…

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