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“La Germania è tornata!”… Per andare dove?

Oscurata dalla telefonata tra Trump e Putin e dalla ripresa del genocidio a Gaza, è passata poco osservata la clamorosa svolta imposta alla Germania dal prossimo cancelliere, il democristiano – molto di destra – Friedrich Merz.

Come dovrebbe esser noto, fin qui Berlino è stata il campione dell’”austerità”, del freno al debito pubblico (tanto da inserire in Costituzione il limite dell’1% al nuovo deficit), del mercantilismo e dei bassi salari.

Ora invece – con 513 sì e 207 no – sono state approvate dal Bundestag le riforme che modificano le regole costituzionali sul freno al debito. Numeri alla mano, sarà ancora più facile far approvare la riforma dal Bundesrat, che riunisce i rappresentanti regionali (i Land).

Non deve però sfuggire la enorme forzatura antidemocratica compiuta da Merz, con il consenso di Spd e Verdi, che ha riunito il Parlamento scaduto pur di evitare di presentare lo stesso testo a quello uscito dalle elezioni di gennaio, dove lo scarto tra favorevoli e contrari – se non altro per mettere in difficoltà la rinata Grosse Koalition – era decisamente basso, se non negativo.

In pratica, una decisione di rilevanza strategica e storica è stata affidata ad un Parlamento defunto, che non rappresenta più il paese reale e le sue ansie.

La maggioranza necessaria ad una riforma costituzionale è infatti, come ovunque nelle “democrazie europee”, dei due terzi: 489 voti. Neanche nel Bundestag ormai sciolto l’alleanza Cdu/Csu-Spd aveva i seggi necessari, ma è arrivato il solito “aiutino” dei Verdi, che già qualche giorno fa avevano raggiunto un compromesso con Merz, in cambio dell’assicurazione che 50 dei miliardi di nuove spese sarebbe stati destinati a indeterminate “politiche ambientali”.

L’eliminazione del freno al debito pubblico è comunque mirata: tutta la spesa che eccede l’1% del Pil (appena 44 miliardi di euro) sarà sottratta al vincolo che limita allo 0,35% del Pil l’indebitamento strutturale consentito allo Stato federale solo se destinata al riarmo o a infrastrutture.

E’ addirittura rivendicato il fatto che questa svolta sia il “contributo” che la Germania vuol dare al riarmo europeo dopo che gli Stati Uniti, con Trump, hanno manifestato l’intenzione di ridurre fortemente la propria spesa militare, in primo luogo quella destinata alla difesa del Vecchio Continente.

«I nostri alleati nell’Unione europea e nella Nato oggi ci guardano, proprio come fanno i nostri avversari e i nemici del nostro ordine democratico e basato sulle regole», ha affermato Merz durante il dibattito. “Regole” aggirabili a piacimento, come si è appena visto…

E quindi 500 miliardi prenderanno la strada delle fabbriche di armi (un po’ statunitensi, per non irritare troppo gli Usa, un po’ europee, ma soprattutto tedesche), mentre altri 500 in 12 anni saranno destinati a nuovi investimenti in infrastrutture, egualmente fuori dal limite del “freno sul debito”.

Un’operazione di enormi dimensioni, che spingerà il debito pubblico tedesco verso l’80% del Pil (ora è poco sopra il 60%), ma da cui ci si attende una spinta sufficiente a portare l’economia fuori dalla stagnazione provocata proprio dalla fine del periodo in cui il modello mercantilista di Berlino (niente debito, salari bloccati, tutto a favore delle esportazioni) aveva funzionato.

Non sarà un passaggio indolore, comunque. L’esplosione del debito potrebbe avere presto effetti sui mercati finanziari, con l’aumento degli interessi da pagare sui bund, che fanno da parametro per la definizione dello spread con i titoli di stato degli altri paesi. E quindi anche sul livello dei risparmi dei cittadini investiti in obbligazione “sicure”. La stessa moneta unica – l’euro – potrebbe risentirne fino a mettere in difficoltà il vertice della Bce.

Come hanno già individuato gli analisti migliori, il pacchetto tedesco di spese straordinarie “deve prevedere un plafond garantito di importazioni di beni e servizi dagli altri Paesi dellEurozona, che altrimenti rischiano il collasso sotto l’urto dei più alti tassi di interesse innescati dalla manovra finanziaria tedesca e dello spiazzamento competitivo del loro debito, che già si è profilato sui mercati anche in relazione al piano di riarmo europeo di cui si sta discutendo in queste due ultime settimane.

Di fatto, o la nuova spesa tedesca va a vantaggio delle industrie europee in generale, oppure il divario tra e varie economie (e i rispettivi debiti pubblici) va ad accentuarsi oltre il limite del consentito per una “comunità che rispetta le stesse regole”.

Il riequilibrio nelle relazioni commerciali tra Usa e Unione Europea, perentoriamente imposto da Trump con la minaccia dei dazi, tocca infatti soprattutto il paese che più si era avvantaggiato dal modello economico fin qui vigente: la Germania, non a caso. A rimetterci erano state soprattutto Francia, Italia e Spagna, strette tra “disciplina fiscale e stretta salariale” (che ha abbattuto la capacità di spesa dei lavoratori/consumatori e con ciò la “domanda interna”).

Ora tutti i paesi Ue sono in condizioni finanziarie tali da non poter aumentare ancora il deficit, neanche per gli investimenti militare decisi o suggeriti dal piano ReArm Europe. Dunque o la Germania fa da traino con le sue commesse, oppure bisogna ricorrere al “debito comune”, fin qui guardato con orrore a Berlino (e anche da Mario Draghi, che ora invece lo vede come “unica soluzione”).

L’alternativa è drammatica, ma soprattutto certa: un enorme fuga di capitali dai paesi europei verso la Germania (che ha alta capacità di spesa perché dotata di un basso debito pubblico, finora) e quindi una “desertificazione industriale” da far impallidire quella fin qui realizzata.

L’esempio è davanti agli occhi di tutti, e si chiama Germania Est, risucchiata con l’Anschluss del 1992, resa un territorio depresso come il nostro Mezzogiorno e ora campo di conquista per movimenti diversamente “anti-sistema”. E per fortuna che da quelle parti non c’è soltanto l’Afd…

La Germania è tornata!“, ha affermato trionfante Fridrich Merz dopo l’accordo sulla riforma costituzionale. Per l’Unione Europea sembra più una minaccia che una speranza…

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2 Commenti


  • Luigi Cadelli

    Il popolo tedesco ha perso tutt’ durante la guerra. I grandi capitalisti che hanno dato pieno appoggio a Hitler sono sempre presenti ( i loro nipoti,i loro azionisti). Ricordo le confessioni di Thyssen,padrone dell’acciaio: ” I paid Hitler’, sì,dopo avere incassato i dividendi grazie alla produzione di ogni ben di adio Marte e poi litigato con i nazisti,rifugiandosi negli USA,scrisse questo libro. Thyssen- Krupp ( ricordiamo i cinque operai bruciati vivi a Torino?)- bella unione. Krupp condannato al processo di Norimberga per avere schiavizzato i prigionieri di guerra nelle sue fabbriche venne condannato però presto rilasciato dal carcere. Le chiavi delle sue industrie,che dovevano essere espropriate, vendere consegnate – attenzione- non lui, ormai impresentabile,ma a suo figlio.
    Vi ricordate i 7 operai bruciati vivi alla Thyssen di Torino?
    L’ amministratore delegato della Thyssen , Espenhahn,fu condannato,in Italia, ma, rientrato subito in Germania poteva tornare a lavorare. Però è stato punito. Alla sera doveva andare a firmare la presenza al posto di polizia. Giustizia!


  • Luigi Cadelli

    I sette operai della Thyssen di Torino: Antonio Schiavone, Roberto Scola, Angelo Laurino, Bruno Santino, Rocco Marzo, Rosario Rodinò, Giuseppe Demasi. Il Comune di Torino ricorda le vittime del rogo.

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