Per la prima volta, mi sento spinta a parlare pubblicamente, perché la nostra azienda sta ora alimentando la violenza di Stato in tutto il mondo.
Quando sono entrata in Google, oltre 20 anni fa, era solo un’azienda agli inizi con poche migliaia di dipendenti. Sentivamo il nostro impegno a creare qualcosa di utile per la società. Quando ho visitato per la prima volta la sede centrale di Mountain View e ho visto persone indossare magliette con il logo Google, ho pensato che l’azienda dovesse obbligare gli ingegneri a indossare un’uniforme: perché altrimenti qualcuno avrebbe dovuto indossare una maglietta che indicasse dove lavora?
Non avevo mai visto o sperimentato questo senso di passione per il proprio datore di lavoro, ma presto ne ho capito il motivo: ogni pochi mesi veniva lanciato un nuovo prodotto o una nuova funzionalità che offriva un servizio gratuito e davvero utile come Gmail! e Google Maps!.
Ma se all’epoca il mio sentimento predominante era l’orgoglio, ora è un altro: il dolore. Questo grazie ad anni di decisioni dirigenziali profondamente problematiche, dall’iniziale incursione di Google negli appalti militari con il Progetto Maven, alle più recenti collaborazioni dell’azienda basate sul profitto come il Progetto Nimbus, il contratto congiunto da 1,2 miliardi di dollari (1.055 milioni di euro) tra Google e Amazon per l’Intelligenza Artificiale e il servizio di archiviazione dati esterno (cloud computing) con l’esercito israeliano, che ha alimentato il Genocidio in corso dei palestinesi a Gaza da parte di Israele.
Oggi ricorre un anno da quando i lavoratori attivisti di No Tech for Apartheid (Nessuna Tecnologia per l’Apartheid) hanno organizzato picchetti presso gli uffici di Google per protestare contro l’uso del nostro lavoro per alimentare il Genocidio a Gaza, per chiedere la fine delle molestie e delle discriminazioni ai danni dei nostri colleghi palestinesi, musulmani e arabi e per fare pressione sui dirigenti affinché affrontassero la crisi di salute e sicurezza sul lavoro causata dal Progetto Nimbus.
Google ha reagito contro i lavoratori e ha licenziato illegalmente 50 dipendenti, compresi molti che non avevano partecipato direttamente all’azione.
Nell’anno successivo, Google ha solo rafforzato il suo impegno come appaltatore militare. Due mesi fa, per sfruttare i contratti federali che l’azienda può ottenere sotto Trump, Google ha abbandonato il suo impegno a non sviluppare Intelligenza Artificiale per armi o sorveglianza.
In rapida successione, Google ha poi acquisito la nascente azienda israeliana per la sicurezza di archiviazione esterna WIZ*, ha stretto collaborazioni con la Dogana e la Polizia di Frontiera statunitense per aggiornare le torri di comando dell’appaltatore bellico israeliano Elbit Systems con l’Intelligenza Artificiale al confine tra Stati Uniti e Messico e ha avviato una collaborazione per l’Intelligenza Artificiale con il più grande speculatore di guerra al mondo: Lockheed Martin.
Lockheed Martin, Northrop Grumman e Raytheon non sono più le uniche aziende belliche in circolazione; Google e le grandi aziende tecnologiche sono sempre più avide. Le grandi aziende tecnologiche sono spinte dal mercato a continuare a incassare profitti.
Ma avendo saturato i mercati di consumo e aziendali, società come Google, in una controversa corsa agli armamenti per dominare il mercato dell’archiviazione esterna dei dati, hanno identificato i bilanci della cosiddetta “difesa”, in continua crescita, dei governi degli Stati Uniti e di altri Paesi come importanti fonti di profitto.
Una cosa è chiara: abbiamo urgente bisogno di un embargo sulle armi integrate con l’Intelligenza Artificiale.
Per anni, mi sono organizzata internamente contro la svolta completa di Google verso gli appalti bellici. Insieme ad altri colleghi coscienziosi, abbiamo seguito i canali interni ufficiali per sollevare preoccupazioni nel tentativo di indirizzare l’azienda verso una direzione migliore.
Ora, per la prima volta nei miei oltre 20 anni di lavoro in Google, mi sento spinta a parlare pubblicamente, perché la nostra azienda sta alimentando la violenza di Stato in tutto il mondo e la gravità dei danni arrecati sta rapidamente aumentando.
I lavoratori si sono sempre opposti alla trasformazione della tecnologia in un’arma, dalle campagne degli United Farm Workers (Lavoratori delle Fattorie [Tecnologiche] Uniti) che hanno fatto leva su boicottaggi, un’organizzazione comunitaria più ampia e scioperi, ai lavoratori afroamericani che hanno organizzato il Movimento Operaio Rivoluzionario Polaroid contro l’uso della pellicola Polaroid nei libretti di risparmio del Sudafrica dell’Apartheid (e hanno vinto).
Possiamo trovare una base per trattare la solidarietà come una condizione sul posto di lavoro e una questione di organizzazione, e un modo per costruire il potere necessario non solo per ottenere piccoli risultati, ma per sovvertire la dinamica di potere che permette ai nostri dirigenti di dare priorità a un Genocidio rispetto alle nostre stesse voci.
Per ottenere vittorie nella nostra lotta per una Tecnologia Umana, dobbiamo agire da una posizione di solidarietà trasversalmente alle nostre divisioni: sia con le persone strutturalmente emarginate nei nostri luoghi di lavoro, sia con le comunità che sopportano il peso dell’impatto delle tecnologie, dai palestinesi bombardati dalle piattaforme di Intelligenza Artificiale di Google e Amazon, ai lavoratori in India che affrontano contratti con giornate lavorative di 14 ore, ai migranti sorvegliati e tracciati, alle nostre stesse comunità che vivono sotto il microscopio della sorveglianza della polizia, ai colleghi che non vediamo ma che sono sorvegliati e monitorati in magazzini e centri dati al punto da non poter usare il bagno per paura di perdere il lavoro.
Solo una base di massa forte e organizzata di lavoratori che intraprendono un’azione collettiva può porre fine alla militarizzazione della nostra azienda. I lavoratori hanno già cambiato Google in passato.
Durante la prima amministrazione Trump, mi sono unita ai miei colleghi per organizzare una protesta contro il Progetto Maven, il contratto di Google con il Dipartimento della Difesa. Abbiamo usato il nostro potere di lavoratori per costringere Google a recedere dal contratto.
Come lavoratori, il nostro potere di apportare cambiamenti risiede l’uno nell’altro. Non solo abbiamo potere quando ci uniamo, ma troviamo anche comunità e uno scopo nella lotta collettiva, come un modo per superare insieme questi tempi bui. È stimolante stare insieme ad altri lavoratori e accrescere la nostra forza e il nostro coraggio insieme.
Ai miei colleghi di Google e a tutti i lavoratori del settore tecnologico: se non agiamo ora, saremo arruolati nell’agenda autocratica e crudele di questa amministrazione: deportare immigrati e dissidenti, privare le persone dei diritti riproduttivi, riscrivere le regole del nostro governo e della nostra economia a favore dei miliardari dei Colossi Tecnologici e continuare ad alimentare il Genocidio dei palestinesi.
Come lavoratori del settore tecnologico, abbiamo la responsabilità morale di resistere alla complicità e alla militarizzazione del nostro lavoro prima che sia troppo tardi.
Note:
[*VIZ: https://www.facebook.com/100066712961629/posts/1013161424250947/]
Emma Jackson lavora per Google da oltre 20 anni. È un’organizzatrice con No Tech for Apartheid (Nessuna Tecnologia per l’Apartheid).
Traduzione: La Zona Grigia
Fonte: https://www.thenation.com/…/google-employee-speaks-out…/?
- © Riproduzione possibile DIETRO ESPLICITO CONSENSO della REDAZIONE di CONTROPIANO
Ultima modifica: stampa
