È accaduto nei giorni scorsi alla Filcams – categoria Cgil che cura i settori commercio e terziario, circa 3 milioni di lavoratori – che si è trovata davanti un testo contrattuale che sembrava scritto apposta per impedirle di firmare. E giustamente non lo ha fatto. Ma non è una sorpresa vera. Come dice Maurizio Scarpa, membro della segreteria nazionale, «con questo si chiude la trilogia». Dopo metalmeccanici e pubblico impiego (e scuola), «diventa evidente la scelta strategica di escludere la Cgil da tutti i tavoli di trattativa».
Vediamo per prima cosa i «contenuti» di questo contratto (al momento ancora allo stadio di «ipotesi di accordo»). Due sono le questioni su cui nessun sindacalista (non diciamo «della Cgil», ma semplicemente «un sindacalista») poteva mettere la propria firma. Il primo rischia di apparire persino quello minore. Se un lavoratore si ammala, le prime due volte gli sarà corrisposto il 100% del salario per i giorni in cui è assente; il 50% nella terza e quarta occasione; più niente le volte successive. Sono, per carità, escluse una serie di patologie che richiedono «trattamenti salvavita» o ricoveri in ospedale, ma intanto viene sancito nero su bianco un principio: se ti ammali, secondo l’azienda, stai «facendo il furbo». E quindi ti viene decurtato il salario. Chiessenefrega del certificato medico. E, in ogni caso, di tutta la legislazione su malattie professionali, infortuni sul lavoro, carichi di lavoro massacranti, ecc. Se non ce la fai – anche se l’azienda ti ha spremuto oltre l’osso – sarai solo tu a rimetterci. In più, le imprese possono «corrispondere direttamente» le cifre dovute nei primi casi, evitando così di versare all’Inps il contributo di legge. In pratica, si scardina il meccanismo solidaristico e si produce – a lungo andare – un deficit strutturale dell’Inps (cui, tra qualche anno, si chiederà di porre rimedio tagliando ulteriormente le pensioni).
Il secondo è ancora peggio. Nel contratto viene assunto pienamente il «collegato lavoro», e quindi «nell’ambito dei contratti individuali di lavoro, possono essere pattuite clausole compromissorie per la devoluzione in via preventiva al Collegio arbitrale delle possibili controversie derivanti dal rapporto di lavoro». Vi sembra complicato? Lo spieghiamo in italiano. Se uno di voi – d’ora in poi – si trovasse a dover sottoscrivere un contratto di qualsiasi tipo (mettiamo con un supermercato), dovrà scegliere se firmare una clausola per la quale, in ogni caso, rinuncia in futuro a ricorrere al magistrato del lavoro; oppure al posto che gli viene offerto. In cambio, potrà rivolgersi a una «commissione bilaterale» – composta in parti uguali da funzionari dell’impresa e sindacati firmatari di questo accordo – che deciderà «secondo equità» che ha ragione l’azienda. Comodo, no?
Il resto sembrano quasi quisquilie. Il part time viene ammesso per sole 8 ore settimanali per gli studenti o per chi abbia un altro lavoro. Ma non è un regalo. Verrete impiegati solo di sabato o domenica. Insomma: si crea altro personale precario a basso reddito, ricattabilissimo, invece di aumentare l’orario di impiego degli altri lavoratori part time già in servizio.
Il «periodo di prova» viene esteso di 15 giorni. Sembra nulla, ma in questo modo diventa possibile aggirare quella norma di legge che impone l’assunzione a tempo indeterminato dopo 36 mesi (tre anni!) di precariato rinnovato. Ma è la domenica il giorno preferito dai centri commerciali, quindi diventano obbligatorie («comandate») fino alla metà di quelle in cui l’esercizio commerciale può restare aperto.
In tutto questo – va da sé – scompare qualsiasi idea di contratto nazionale, ma anche di «secondo livello». La possibilità di chiedere «deroghe» è praticamente infinita per l’azienda e di fatto nulla per i lavoratori. Esempio: «impossibilità di definire o incrementare indennità o emolumenti fissi» (tradotto: un contratto aziendale non può più
«migliorare» quello nazionale) perché ogni intesa dovrà essere «finalizzata al miglioramento di produttività, competitività ed efficienza». Mentre l’impresa potrà chiedere un peggioramento delle condizioni contrattuali in caso di «crisi, sviluppo, occupazione o situazioni legate al Mezzogiorno». Insomma: quando le pare o le serve.
Sulla parte economica, visto il quadro precedente, non è il caso di fare ironie eccessive. 86 euro di aumento su base triennale è semplicemente il livello più basso raggiunto da tutti i contratti fin qui firmati «separatamente» da Cisl e Uil. Da questa cifra vanno comunque sottratti due euro al mese – per ora – per finanziare un fondo che fin qui era a totale carico delle aziende. «In cambio» – volendo scherzare – i nuovi assunti dovranno osservare un orario di lavoro più lungo. Loro, infatti, si vedranno riconosciuti solo al 50% i permessi retribuiti per recuperare le festività soppresse (sopra le quattro).
Per chi ha firmato – Cisl e Uil – si tratta della certificazione di un «cambiamento di natura». Domanda finale alla segretria Cgil: se questo è vero, come ha dichiarato ieri anche Susanna Camusso, che fine fa la «strategia» decisa nel congresso di Rimini («recuperare un rapporto unitario con Cil e Uil»)?
Da Il Manifesto del 5 marzo
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