Non è facile disaggregare li finanziamenti a beneficio delle aziende straniere dai dati complessivi sui sostegni all’industria in Italia. L’unico dato certo il sito di giornalismo economico economico www.Lettera43.it lo ho ottenuto da Invitalia, l’agenzia per l’attrazione degli investimenti e lo sviluppo d’impresa che agisce per conto del governo e fa capo al ministero dello Sviluppo economico. I dati finora ottenuti sono i seguenti: dal 2006 al 2011 le imprese estere (o italiane, ma controllate da investitori esteri) hanno preso incentivi pubblici per 111,3 milioni di euro, con punte di 35,3 milioni nel 2009 e 30,9 milioni nel 2010, mentre nel 2011 i finanziamenti sono scesi a 12,3 milioni di euro.
Naturalmente si tratta di cifre parziali, legate al vecchio strumento del contratto di localizzazione, oggi sostituito dal più raffinato contratto di sviluppo che ha rimpiazzato anche il celebre contratto di programma. E soprattutto si tratta soltanto dei fondi erogati dallo Stato centrale, ai quali vanno poi aggiunte le risorse dell’Unione europea e i finanziamenti delle singole Regioni o Province autonome con le loro agenzie di sviluppo e la miriade di strumenti e programmi che hanno a disposizione.
In ogni caso, da Invitalia arriva una misura più che indicativa di quelli che sono stati gli stanziamenti elargiti alle multinazionali estere che venivano a insediarsi in Italia. Tutto molto bello, se si considera che l’agenzia per l’attrazione degli investimenti e lo sviluppo d’impresa, oltre agli incentivi finanziari, garantiva (e garantisce) assistenza sul fronte burocratico e istituzionale, sostegno alla ricerca e alla formazione. Intenzioni e pratiche buonissime che però si sono spesso scontrate con gli umori cangianti del capitale globale.
Tra l’altro, il contratto di localizzazione prevede per l’investitore estero l’obbligo di conservare la partecipazione azionaria di maggioranza dell’impresa beneficiaria per almeno cinque anni dalla stipula del contratto. E tuttavia non contempla un vincolo di permanenza su un dato territorio per un numero minimo di anni. Dunque, l’imprenditore straniero appare libero di spostarsi o di andar via anche dopo poco tempo.
È interessante incrociare questi dati con quelli forniti dal Monitoraggio economia e territorio (Met), l’unico istituto indipendente che ogni anno elabora un rapporto completo sulle politiche industriali, basandosi su dati del ministero dello Sviluppo, del Miur (Ministero dell’istruzione università e ricerca) e delle Regioni.
Proprio in relazione al contratto di programma (che tuttavia non riguarda solo le imprese estere), abbiamo erogazioni pari a 111,3 milioni nel 2010 e ben 191,3 milioni nel 2009. Considerando il triennio 2008-10, la cifra che fa capo a questo strumento supera i 390 milioni di euro.
Numeri che incuriosiscono se si considerano i casi più o meno recenti di multinazionali (italiane o straniere) che hanno cambiato il volto di intere regioni della Penisola per poi fuggire o delocalizzare dopo aver preso i soldi.
L’ultimo esempio che viene in mente è quello della Sigma Tau a Pomezia, vicino Roma, ma se ne potrebbero citare tanti altri: dall’americana Nortek (motori per cappe aspiranti), ‘scappata’ da poco in Polonia, alla britannica Ineos (settore chimico) che nel 2006 prese 19 milioni di euro di fondi pubblici per trasferire la produzione da Monfalcone in Sardegna – senza neanche un saldo occupazionale positivo – salvo poi dismettere lo stabilimento di Macchiareddu nel 2009.
Oppure il contratto che ha regalato agli americani della Texas Instruments ben 422 milioni (il 55% dei costi complessivi) per costruire tre stabilimenti ad Aversa, Avezzano e Cittaducale, poi rivenduti ad altre società straniere.
Emblematico anche il caso della Videocon di Anagni. Non molti anni fa questa azienda era leader nella produzione mondiale di cinescopi e si chiamava Videocolor, sotto il controllo della multinazionale francese Thomson, che decise però di delocalizzare la propria produzione in altri paesi. Così si decise di vendere la proprietà degli stabilimenti di Anagni a una multinazionale Indiana, la Videocon, di appartenenza del gruppo indiano della famiglia Venugopal Dooth. La Videocon, in accordo con il governo e i sindacati, incassò i finanziamenti pubblici impegnandosi a garantire l’occupazione di 1.500 dei 2.550 dipendenti complessivi dell’azienda per 3 anni. Ma in questi tre anni non è stato prodotto neanche un televisore, ma ci si è limitati ad assemblare materiale importato dall’estero per poter usare il marchio “Made in UE”, nonostante la presenza nei locali di lavoro di macchinari tecnologicamente all’avanguardia per produrre televisori al plasma. Adesso i tre anni sono trascorsi e il gruppo indiano ha deciso di cambiare il piano industriale, mettendo così a rischio il posto di lavoro di oltre 1.300 dipendenti.
Come caso territoriale, giusto per citare un caso, c’è lo stillicidio di addii di aziende farmaceutiche nel Lazio. Si tratta di imprese che, tra bandi e agevolazioni, si sono beccate buona parte degli oltre 200 milioni di incentivi pubblici erogati anno dopo anno nell’ultimo decennio, con una partecipazione finanziaria della Regione intorno al 16-18%.
Nel 2010 sborsati 2,7 miliardi di euro
Dal 1999 al 2005 le erogazioni a tutto il sistema delle imprese, al netto di prestiti e mutui, hanno toccato la cifra sbalorditiva di circa 35 miliardi di euro. Dal 2001 al 2005, all’industria e ai servizi alle aziende sono andati finanziamenti pubblici a fondo perduto per cifre oscillanti ogni anno tra i 4,2 e i 6 miliardi di euro (il picco del 2002).
Successivamente, con l’arrivo della crisi internazionale e le difficoltà del bilancio pubblico, i sostegni erogati sono calati inesorabilmente (l’arretramento dello Stato è stato in parte compensato dai fondi delle Regioni ricche), tuttavia nel 2010 sono stati sborsati ancora 2,7 miliardi di euro (fondi statali, regionali e di Province autonome).
In media un’azienda su quattro in Italia, dunque non solo le multinazionali, si becca danaro a fondo perduto che spesso non finanzia la ricerca o azioni di riqualificazione della produzione, ma viene sprecato in operazioni di bassa produttività (e alto profitto) o addirittura si tratta di soldi ottenuti in modo illegale.
Va precisato che erogare molti fondi pubblici al sistema produttivo può rappresentare un fattore di crescita e di rafforzamento del tessuto economico (vedi la Germania), ma gli interventi scoordinati, a pioggia, non armonizzati in una vera politica industriale non sempre vanno a buon fine. Soprattutto quando a papparsi i finanziamenti sono imprenditori più bravi a muoversi nei palazzi del potere che a creare valore in azienda.
Non a caso, il nostro sistema industriale si caratterizza per una bassa produttività e una competitività che negli ultimi 10-15 anni ha perso posizioni su posizioni.
Le tipologie di contributi, naturalmente, sono molto diverse tra loro: conto capitale, conto interessi, finanziamenti agevolati, semplici garanzie e così via. Nel 2010 la ricerca e l’innovazione hanno assorbito ufficialmente il 30% dei sostegni e un 25% è andato all’ampliamento della produzione e alla crescita. L’internazionalizzazione ha ricevuto l’8,6% e l’early stage (seed e start-up) il 5,7%. Una voce a parte è costituita dal settore aeronautico che si è beccato nel 2010 ben 659 milioni di euro.
In ogni caso, la pletora di strumenti nazionali e locali – leggi, leggine, bandi, agevolazioni, patti territoriali – non favorisce la trasparenza e finisce per rendere la vita difficile anche all’imprenditore armato delle migliori intenzioni.
Raffaele Brancati, presidente del Met, tira le somme. E a Lettera43.it spiega: «Ogni impresa si trova davanti 20 o 30 strumenti operativi per ogni Regione. Soprattutto manca l’attenzione ai dettagli operativi, le procedure sono pensate male e spesso la convenienza teorica dell’intervento si perde per strada».
Fonti: controlacrisi.org; Lettera43.it
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