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Rigore e sopravvivenza. L’Italia vista dal Censis

Ogni tanto viene nostalgia dei “democristiani bravi”, quelli capaci di riconoscere la realtà anche quando non la trovano attraente. QUella nostalgia torna quasi sempre quando si leggono i rapporti del Censis, guidato da Giuseppe De Rita, moroteo non pentito, lucido analista delle tendenze sociali.
Il rapporto presentato stamattina è come al solito denso di suggestioni e ricco di illuminazioni. Poi, come è inevitabile con le rilevazioni sociologiche ad ampio spettro, ognuno tende e ritrovarci quel che più coincide con le proprie rislevazioni.
Consapevoli di questo scarto, evidenziamo qui alcune notizie, in primo luogo, che descrivono a grandi pennellate un quadro crudo. Nel 2012 “2,5 milioni di famiglie hanno venduto oro o altri oggetti preziosi negli ultimi due anni, 300.000 famiglie mobili e opere d’arte, l’85% ha eliminato sprechi ed eccessi nei consumi, il 73% va a caccia di offerte e alimenti poco costosi”.
Non sono però soltanto i “sacrifici” a descrivere una “strategia di sopravvivenza”, ma anche la “messa a valore” del patrimonio immobiliare (il “bed & breakfast diffuso” è diventato endemico), la riscoperta dell'”orto” per ridurre la spesa monetaria, la drastica riduzione nell’uso dei veicoli a motore e il parallelo bomm della bicicletta.
Ma è sul piano della sintesi politica che si nota di più la critica “cristiano sociale” al governo soltanto “tecnico”: “Istituzioni politiche e soggetti sociali «separati in casa». Hanno attuato una parallela discontinuità: il governo con il rigore, l’economia e la società con strategie di riposizionamento. Ma non è ancora scattata la magia dello sviluppo fatto da governo e popolo”. Del resto, se qualche tentativo governativo in questa direzione c’è stato, si è palesato non coni fatti (atti di governo) ma con “richieste di adesione ad improbabili cambi di metalità e di comportamenti”. A Monti saranno fischiate le orecchie…
Sottinteso: così facendo, quella “magia” che era sottesa al boom economico, non scatterà mai; aprendo invece le porte a soluzioni molto diverse (dal “populismo” alle tentazioni elitarie tipiche del “tecnicismo”), ma comunque disgreganti.
Un’ultimo dato, per noi, stimolante:  “Il doppio tsunami della crisi economico-finanziaria e del crollo reputazionale di forze politiche e istituzioni ha investito i politici della Seconda Repubblica. Nell’ultimo anno i partecipanti a iniziative di protesta contro la politica sono stati il 4,1% della popolazione (fra i giovani la quota sale al 13%). Questa forte disponibilità dell’opinione pubblica all’indignazione e alla mobilitazione «contro» si iscrive nel contesto più generale di crisi delle democrazie rappresentative che attraversa gran parte delle società europee, ma assume in Italia caratteri più radicali e una diffusione più consistente”.
Resta aperto il problema dei problemi: questa “protesta è senza rappresentanza”. La sfida è costruirla.

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Il testo degli abstract forniti dal Censis:

L’Italia alla prova della sopravvivenza

Istituzioni politiche e soggetti sociali «separati in casa». Hanno attuato una parallela discontinuità: il governo con il rigore, l’economia e la società con strategie di riposizionamento. Ma non è ancora scattata la magia dello sviluppo fatto da governo e popolo

L’Italia alla prova della sopravvivenza.

Si chiude un anno in cui è stato centrale il problema della sopravvivenza, che non ha risparmiato nessun soggetto della società, individuale o collettivo, economico o istituzionale. Sono entrati in gioco «fenomeni enormi» (la speculazione internazionale, la crisi dell’euro, l’impotenza dell’apparato europeo, la modifica degli assetti geopolitici internazionali), ci sono piovuti addosso «eventi estremi» (la dinamica dello spread e il pericolo di default) e abbiamo vissuto la «crisi delle sedi della sovranità», esautorate dall’impersonale potere dei mercati (nessuno, in Italia e altrove, è stato in grado di esercitare un’adeguata reattività decisionale). Ci siamo così ritrovati inermi, in una «immunodeficienza tanto inattesa quanto pericolosa», con le preoccupazioni della classe di governo, le drammatizzazioni dei media, le inquietudini popolari.

Istituzioni politiche e soggetti sociali «separati in casa».

Le dinamiche interne hanno visto una «parallela discontinuità». Da un lato, le istituzioni politiche si sono concentrate con rigore sulla fragilità dei conti pubblici e della nostra credibilità finanziaria internazionale, sulla riduzione delle spese, le riforme settoriali, la razionalizzazione dell’apparato pubblico. Dall’altro lato, i soggetti economici e sociali sono rimasti soli con le loro affannose strategie di sopravvivenza, anche scontando sacrifici e restrizioni derivanti dalle politiche di rigore.

Questa divaricazione può generare poteri oligarchici, da una parte, e tentazioni di populismo, anche rancoroso, dall’altra. Uno scatto di discontinuità politica. Poiché «i tempi si erano fatti cattivi», è servito uno scatto di discontinuità rispetto ai precedenti modelli di comportamento, pubblici e privati, per ricalibrare i pregiudicati rapporti con i partner europei, le autorità comunitarie, i regolatori dei mercati finanziari globali. Ma i soggetti sociali non si sono sentiti coinvolti dall’azione di governo, perché sospettosi che alle strategie tecnico-politiche non seguisse un’adeguata implementazione amministrativa e organizzativa, e perché restavano in attesa di una proposta di percorso comune, più che di richieste di adesione a improbabili cambi di mentalità e di comportamenti. «Non è scattata la magia dello sviluppo fatto da governo e popolo» e il rigore di governo «non ha avuto lo spessore per generare forza psichica collettiva».

Tre grandi spinte di sopravvivenza: «restanza», differenza, riposizionamento.

Proprio nei mesi di più drammatica difficoltà, nel sottofondo della dinamica sociale ha cominciato a vedersi una «autonoma tensione alla solidità». Sono emerse tre grandi spinte di sopravvivenza. La prima è stata il fare perno sulla «restanza» del passato, per riprendere e valorizzare ciò che resta di funzionante del nostro tradizionale modello di sviluppo: il valore dell’impegno personale, la funzione suppletiva della famiglia rispetto ai buchi della copertura del welfare pubblico, la centratura sulla prossimità nella quale si sviluppano le relazioni cruciali, la solidarietà diffusa e l’associazionismo, la valorizzazione del territorio come dimensione strategica di competitività del sistema. La seconda spinta è stata la crescente valorizzazione della differenza e la voglia di personalizzazione: esempi ne sono il politeismo alimentare, con combinazioni soggettive di cibi e anche di luoghi ove acquistarli, senza tabù, neutralizzando ogni passata ortodossia alimentare; la moltiplicazione dei format di vendita, con la forte crescita degli acquisti online, la diffusione di siti web con offerte low cost e di gruppi di acquisto solidale; la personalizzazione dell’impiego dei media, sia per la fruizione dei contenuti di intrattenimento, sia per l’accesso alle fonti di informazione, secondo palinsesti multimediali «fai da te», autogestiti, svincolati dalla rigida programmazione delle grandi emittenti; la miniaturizzazione dei dispositivi tecnologici, la proliferazione delle connessioni mobili, l’esplosione dei social network, grazie ai quali diventano centrali la trascrizione virtuale e la condivisione telematica delle biografie personali. La terza spinta è stata data dai processi di riposizionamento: esempi ne sono il riorientamento dei giovani verso percorsi di formazione tecnico-professionale dalle prospettive di inserimento lavorativo più certe, la rinnovata vitalità di pezzi del tessuto produttivo (le cooperative, le imprese femminili, il settore Ict e le applicazioni Internet, le start-up nell’alta tecnologia e le green technologies), l’espansione della distribuzione organizzata e delle attività di commercio via web, l’aumento delle quote di mercato dell’Italia nelle aree emergenti del mondo grazie a specializzazioni produttive diverse dal tradizionale made in Italy, il cambiamento del modello di internazionalizzazione grazie a un di più di strategia che si è tradotto in un aumento degli investimenti in partecipazioni all’estero.

Una torsione quasi identitaria per «essere altrimenti».

Da una parte, impegnative politiche di vertice volte ad allineare il sistema al rigore predicato e perseguito dalle più influenti sedi di potere europeo. Dall’altra, milioni di persone impegnate a sopravvivere da sole alla crisi, con un’intima tensione a cambiare attraverso processi di riposizionamento. La sfida della sopravvivenza è stata combattuta non solo a difesa di quel che c’era e che avrebbe potuto essere perduto, ma ha comportato anche una «torsione quasi identitaria». In questi mesi non abbiamo solo salvaguardato il nostro «essere», ma anche cercato, più o meno consapevolmente, di «essere altrimenti». Tenere insieme nella nostra dialettica socio-politica le ragioni del rigore istituzionale e la popolare voglia di sopravvivenza sarebbe un significativo passo di crescita della nostra unità nazionale, perché oggi vive nel Paese una serietà collettiva (nelle preoccupazioni come nell’impegno) che era impensabile solo pochi mesi fa e che non va dispersa.

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Segnali di reazione degli italiani: in moto processi di riposizionamento nel sociale e nell’economia

Verso l’e-consumatore competente, nuove ambizioni nelle scelte di studio e di lavoro, riorganizzazione all’estero del sistema d’impresa, segmenti produttivi emergenti, industria digitale. I rischi: smottamento del ceto medio, reazioni di rabbia, protesta senza rappresentanza

(L’ANNO DEL GRANDE RIPOSIZIONAMENTO) Italiani oltre la sopravvivenza. 2,5 milioni di famiglie hanno venduto oro o altri oggetti preziosi negli ultimi due anni, 300.000 famiglie mobili e opere d’arte, l’85% ha eliminato sprechi ed eccessi nei consumi, il 73% va a caccia di offerte e alimenti poco costosi. Sono alcune delle difese strenue degli italiani di fronte alla persistenza della crisi. Non ultima, la messa in circuito del patrimonio immobiliare posseduto, affittando alloggi non utilizzati o trasformando il proprio in un piccolo bed & breakfast (nelle grandi città, con oltre 250.000 abitanti, il fenomeno riguarda il 2,5% delle famiglie). E sono 2,7 milioni gli italiani che coltivano ortaggi e verdura da consumare ogni giorno, 11 milioni si preparano regolarmente cibi in casa, come pane, conserve, gelati. Anche nei consumi si registra una discontinuità rispetto al passato. Il 62,8% degli italiani ha ridotto gli spostamenti in auto e scooter per risparmiare sulla benzina, nel periodo gennaio-settembre 2012 il mercato dell’auto registra il 25% di immatricolazioni in meno rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente, e c’è un boom delle biciclette: più di 3,5 milioni di due ruote vendute in un biennio.

Verso l’e-consumatore competente. Le funzioni del consumo si stanno modificando anche grazie alla diffusione delle nuove tecnologie. Il 14,9% degli italiani è iscritto a gruppi di acquisto online che offrono beni e servizi a basso costo. E nelle decisioni di spesa alimentare il 42% considera molto importanti le informazioni sulla provenienza dei prodotti, collocandole al primo posto tra i fattori che orientano la decisione di acquisto. Il responsabile familiare degli acquisti è soprattutto donna (66,5%), uomo nel 43,9% dei casi al Nord-Est. La casa-patrimonio resta assolutamente maggioritaria nelle scelte degli italiani, ma le necessità contingenti stanno rivalutando l’affitto. Nel 2011 la quota di famiglie in locazione ha raggiunto il 21% e nelle aree metropolitane la percentuale sfiora il 30%. Nel trasporto privato si sta diffondendo la logica del noleggio e del car sharing. Diminuisce la quota di famiglie che hanno più di un’automobile (dal 33,4% al 32,1% tra il 2010 e il 2011), il fatturato dell’industria del noleggio si attesta sui 5 miliardi di euro (+2,2% tra il 2010 e il 2011) e il numero degli addetti è in crescita (+3,2% nel periodo 2010-2011 e +3,3% nel primo trimestre del 2012 rispetto al primo trimestre del 2011).

Nuove ambizioni nelle scelte di studio e di lavoro. Con il prolungarsi della crisi e dei suoi effetti sull’occupazione e sul benessere delle famiglie, cominciano a emergere segnali di riposizionamento dei giovani rispetto alle scelte di studio e di lavoro. Nel corrente anno scolastico è aumentato dell’1,9% rispetto all’anno precedente il peso delle preiscrizioni agli istituti tecnici e professionali. Le immatricolazioni all’università sono diminuite del 6,3% e i dati provvisori relativi al 2011-2012 segnano un’ulteriore contrazione del 3%. La crisi ha evidenziato come la laurea non costituisca più un valido scudo contro la disoccupazione giovanile, né garantisca migliori condizioni di occupabilità e remuneratività rispetto ai diplomati. I giovani si indirizzano allora verso percorsi di inserimento lavorativo meno aleatori, dai contorni professionali più certi: tra il 2007 e il 2010 i corsi di laurea di tipo umanistico-sociale (i gruppi letterario, insegnamento, linguistico, politico-sociale, psicologico) subiscono nell’insieme una riduzione del loro peso percentuale sul totale delle immatricolazione di più del 3% (passano dal 33% al 29,9% del totale), mentre i percorsi a valenza tecnico-scientifica (i gruppi agrario, chimico-farmaceutico, geobiologico, ingegneria, scientifico) registrano un +2,7% (la loro quota passa dal 26% al 28,7%). I giovani che hanno deciso di completare la loro formazione superiore all’estero sono aumentati del 42,6% tra il 2007 e il 2010. Con un significativo sacrificio delle famiglie: nell’ultimo anno il 30,3% ha sostenuto costi aggiuntivi scolastici, il 21,5% per un figlio senza lavoro, il 16,1% per un figlio che frequenta una università italiana e il 5,6% per una università straniera.

La riorganizzazione all’estero del sistema d’impresa. Il manifatturiero ha subito un restringimento della base produttiva: il 4,7% di imprese in meno tra il 2009 e oggi. Il saldo tra iscritte e cancellate è stato pari a -30.023. Emerge però un processo di riposizionamento in corso. I flussi dell’export italiano sono parzialmente cambiati, orientandosi verso le economie emergenti: tra il 2007 e oggi la quota di esportazioni verso l’Unione europea si è ridotta dal 61% al 56%, mentre quella verso le principali aree emergenti è aumentata dal 21% al 27%. Attualmente la Cina assorbe il 2,7% delle nostre esportazioni, la Russia il 2,5% e i Paesi dell’Africa settentrionale il 2,9%. Negli scambi con l’estero è diminuito il peso del made in Italy (tessile, abbigliamento-moda, alimentari, mobile-arredo), ma è aumentata la penetrazione di altre specializzazioni manifatturiere, come la metallurgia, la chimica e la farmaceutica. Si è ridimensionato il numero delle imprese esportatrici (dal picco massimo di 206.800 unità nel 2006 si è passati a 205.302 nel 2011), ma aumentano gli investimenti in partecipazioni all’estero, che superano oggi le 27.000 unità (nel 2005 si era a quota 21.740). Dal 2008 a oggi le strutture commerciali che hanno chiuso sono state più di 446.000, a fronte di poco più di 319.000 nuove aperture. Nella prima metà del 2012 il saldo resta negativo (-24.390 imprese). Ma altri segmenti produttivi registrano segnali di crescita: prosegue l’espansione delle strutture della distribuzione organizzata (dalle 17.804 del 2009 alle 18.978 del 2011) e degli operatori del commercio via web, tv e a distanza (passati da 29.163 a 32.718).

Il dinamismo dell’economia collaborativa e dei segmenti emergenti. Ci sono porzioni del sistema produttivo che non sono rimaste immobili di fronte alla crisi. C’è il sistema delle imprese cooperative, cresciute del 14% tra il 2001 e il 2011, attestandosi a poco più di 79.900 unità, ancora in grado di generare occupazione: +8% di addetti tra il 2007 e il 2011, a fronte del -1,2% degli occupati in Italia, e +2,8% anche nei primi nove mesi del 2012 (+36.000 addetti rispetto all’anno precedente). Ci sono le imprese femminili, oggi pari a 1.435.000, il 23,4% del totale delle aziende italiane: a settembre 2012 si sono ridotte appena di 593 unità rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente, a fronte di una diminuzione di oltre 29.000 imprese guidate da uomini. C’è il sistema della media impresa, che conta 3.220 aziende, con un contributo del 15% alla produzione manifatturiera, che arriva al 21% se si considera l’indotto: negli ultimi dieci anni l’aggregato dei bilanci è rimasto sempre in utile, grazie anche al fatto che il 90% esporta, con una incidenza del 44% delle vendite all’estero sul fatturato complessivo. C’è poi il settore delle Ict, in particolare delle applicazioni Internet: nelle circa 800 start-up del 2011 l’età media degli imprenditori è 32 anni. E poi le green technologies: si stima che il 27% delle imprese industriali abbia effettuato investimenti in questo comparto, così come il 26,7% delle imprese di costruzioni, il 21% delle imprese di servizi, fino a punte di quasi il 40% tra le public utilities.

La logica biomediatica spinge l’industria digitale. Siamo entrati nell’era biomediatica, in cui la miniaturizzazione dei dispositivi hardware e la proliferazione delle connessioni mobili ampliano le funzioni, potenziano le facoltà, facilitano l’espressione e le relazioni delle persone. L’utenza del web in Italia è aumentata di 9 punti percentuali nell’ultimo anno, portando il tasso di penetrazione al 62,1% della popolazione nel 2012 (era il 27,8% solo dieci anni fa, nel 2002). Gli smartphone di ultima generazione sempre connessi in rete arrivano al 27,7% di utenza (e la percentuale sale al 54,8% tra i giovani), con un incremento del 10% in un anno. Quasi la metà della popolazione (il 47,4%, percentuale che sale al 62,9% tra i diplomati e i laureati) utilizza almeno un social network. E le applicazioni del web permeano ormai ogni aspetto della nostra vita quotidiana: si usano per trovare una strada (lo fa con il pc o lo smartphone il 37,6% delle persone con accesso alla rete, una quota che sale al 55,2% tra i più istruiti), l’home banking (rispettivamente, il 25,6% e il 41,2%), fare acquisti (rispettivamente, il 19,3% e il 28,1%), prenotare viaggi (15,9% e 26,2%), cercare lavoro (11,8% e 18,4%), sbrigare pratiche con uffici (9,6% e 14,1%), prenotare una visita medica (6,6% e 8,5%). La spesa per il traffico dati con telefoni cellulari continua a crescere, fino a poco meno di 5 miliardi di euro nel 2011 (+8,9% rispetto all’anno precedente), superando così la soglia del 50% rispetto agli introiti da servizi di fonia vocale (l’incidenza era del 25% solo nel 2005). Nel primo trimestre del 2012 i terminali smartphone e tablet in circolazione erano 39,4 milioni, a metà anno le schede sim utilizzate per il traffico dati hanno sfiorato la cifra record di 21 milioni, con un volume di traffico dati sulla banda larga mobile che ha compiuto un balzo del 36,5% rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente.

L’immobiliare in crisi riparte dalla domanda abitativa. A fine anno le transazioni immobiliari si attesteranno sulle 485.000 unità, tornando così ai valori precedenti a quelli del ciclo espansivo, che arrivò nel 2006 a registrare il picco di 870.000 compravendite. Nel periodo 2008-2011 il numero di mutui per l’acquisto di abitazioni è diminuito di oltre il 20% rispetto al quadriennio 2004-2007. Nel primo semestre del 2012 la domanda di mutui ha fatto registrare un’ulteriore contrazione del 44% rispetto allo stesso periodo del 2011. Sono però 907.000 le famiglie intenzionate a comprare casa nel 2012: erano 1,4 milioni nel 2001, sono poi scese a circa 1 milione nel 2007 e il consuntivo per il 2011 è stato di 925.000. Nel 2011 le famiglie che sono riuscite a realizzare l’acquisto sono state il 65,2%, ma quest’anno scenderanno al 53,5% (il 45,7% nei comuni capoluogo). Gli acquirenti sono in prevalenza già proprietari (8 su 10), per due terzi sono famiglie con due percettori di reddito, per il 61% appartenenti al ceto medio, per il 26% collocati nella fascia di reddito alta, per il 13% con reddito medio.

Il federalismo incompiuto genera «ricentralismo». La percezione del peso delle politiche nazionali è aumentata nell’ultimo triennio, ma il livello regionale e locale viene comunque individuato come quello più importante dal 38% dei cittadini. Il forte legame degli italiani con il territorio è confermato dal fatto che il 92,8% dei maggiorenni ritiene che la propria regione abbia elementi di specificità che la distinguono dalle altre. La maggioranza (il 65,9%) dichiara di seguire con attenzione la politica a livello comunale. E anche sullo spinosissimo tema dei servizi sanitari la maggioranza dei cittadini si è espressa a favore dell’attribuzione alle Regioni di maggiori responsabilità: il 57,3% lo considera un fatto positivo, soprattutto per la vicinanza con i problemi locali, e solo il 30,5% è di parere contrario, soprattutto per il rischio che si accentuino le disparità territoriali.

(I RISCHI DELLA SEPARAZIONE TRA ÉLITE E POPOLO) Lo smottamento del ceto medio. Il reddito medio degli italiani si riduce a causa del difficile passaggio dell’economia, ma anche per effetto dei profondi mutamenti della nostra struttura sociale, che hanno affievolito la proverbiale capacità delle famiglie di produrre reddito e accumulare ricchezza. Negli ultimi vent’anni la ricchezza netta delle famiglie è aumentata del 65,4% grazie soprattutto dall’aumento del valore degli immobili posseduti (+79,2%). I redditi, al contrario, non hanno subito variazioni: negli anni ’90 il reddito medio pro-capite delle famiglie è aumentato, passando da circa 17.500 a 18.500 euro, si è mantenuto stabile nella prima metà degli anni 2000, ma a partire dal 2007 è sceso ai livelli del 1993: -0,6% in termini reali tra il 1993 e il 2011. Negli ultimi dieci anni, la ricchezza finanziaria netta è passa da 26.000 a 15.600 euro a famiglia, con una riduzione del 40,5%. La quota di famiglie con una ricchezza netta superiore a 500.000 euro è praticamente raddoppiata, passando dal 6% al 12,5%, mentre la ricchezza del ceto medio (cioè le famiglie con un patrimonio, tra immobili e beni mobili, compreso tra 50.000 e 500.000 euro) è diminuita dal 66,4% al 48,3%. E c’è stato uno slittamento della ricchezza verso le componenti più anziane della popolazione. Se nel 1991 i nuclei con capofamiglia di età inferiore a 35 anni detenevano il 17,1% della ricchezza totale delle famiglie, nel 2010 la loro quota è scesa al 5,2%. Un ulteriore elemento che determina la riduzione del reddito medio è la quota rilevante di famiglie immigrate (il 6,6% del totale), per il 45,1% con un reddito inferiore a 15.000 euro annui.

Reazioni di rabbia alla crisi della politica. Il crollo morale della politica e la corruzione sono ritenute le cause principali della crisi: lo pensa il 43,1% degli italiani. Segue il debito pubblico legato a sprechi e clientele (26,6%) e l’evasione fiscale (26,4%). La politica europea e l’euro vengono dopo (17,8%), così come i problemi delle banche (13,7%). Il sentimento più diffuso tra gli italiani in questo momento è la rabbia (52,3%), poi la paura (21,4%), la voglia di reagire (20,1%), il senso di frustrazione (11,8%). Le paure per il futuro sono innanzitutto la malattia (35,9%) e la non autosufficienza (27%), poi il futuro dei figli (26,6%), la situazione economica generale (25,5%), la disoccupazione e il rischio di perdere il lavoro (25,2%).

Lo slittamento etico. Il 74% dei cittadini europei è convinto che la corruzione sia un problema grave nel proprio Paese, ma in Italia la percentuale sale all’87%. Il 47% degli europei ritiene che negli ultimi tre anni la corruzione sia aumentata, ma in Italia tale percezione sale al 56%. Il 46% degli italiani, contro il 29% della media Ue, afferma di essere stato colpito personalmente dalla corruzione nella propria vita quotidiana. Secondo un’indagine del Censis, per la maggioranza degli italiani in futuro aumenteranno i comportamenti scorretti per fare carriera (lo pensa il 64,1%), l’evasione fiscale (58,6%), le tangenti negli appalti pubblici (55,1%) e la mercificazione del corpo (53,2%).

Una protesta senza rappresentanza. Il doppio tsunami della crisi economico-finanziaria e del crollo reputazionale di forze politiche e istituzioni ha investito i politici della Seconda Repubblica. Nell’ultimo anno i partecipanti a iniziative di protesta contro la politica sono stati il 4,1% della popolazione (fra i giovani la quota sale al 13%). Questa forte disponibilità dell’opinione pubblica all’indignazione e alla mobilitazione «contro» si iscrive nel contesto più generale di crisi delle democrazie rappresentative che attraversa gran parte delle società europee, ma assume in Italia caratteri più radicali e una diffusione più consistente.


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