L’azienda leader della grande distribuzione organizzata in Italia e la multinazionale del panino a basso costo sono state “vittime” degli effetti delle loro ultime campagne pubblicitarie. La colpa è delle agenzie che non hanno saputo confezionare un prodotto adeguato?
Noi riteniamo di no. Crediamo siano rimaste vittime delle loro stesse contraddizioni, delle loro promesse di creare posti di lavoro o di mostrare un luogo di lavoro“come un mondo accattivante e un ambiente simpatico”; dietro queste garanzie ad effetto si celano numerose incoerenze, tra l’altro evidentissime. I posti di lavoro sono spesso precari, con contratti a tempo determinato e spesso part-time e non possano certo rappresentare un’opportunità in grado di soddisfare le esigenze di stabilità di un individuo o, meno che mai, di una famiglia; soprattutto se si fanno i conti con l’occupazione persa a causa della chiusura di centinaia di piccole e medie attività ogni anno, incapaci di reggere la concorrenza.
Le numerose testimonianze che abbiamo raccolto nella nostra analisi del settore, tra l’altro a prevalente occupazione femminile, sono il sintomo più evidente che i lavoratori del commercio sono stremati e stanno portando alla luce le condizioni di precarietà di chi si guadagna da vivere nei centri commerciali, laboratori di sperimentazione di nuove forme di sfruttamento e di alienazione nei confronti dei lavoratori che vengono indotti a considerare l’azienda come una “famiglia”, dove la flessibilità è un elemento imprescindibile: straordinari, festivi obbligatori, orari che cambiano ogni giorno, ferie non concordate sono la normalità e rendono inconciliabili i tempi di vita e di cura della famiglia con il lavoro. A questo si aggiunge tutta una serie di meccanismi disciplinari e di abusi, come il mobbing, che minano qualsiasi forma di tutela.
Illuminante in tal senso è l’agile libro “L’azienda totale”,edito da Sensibili alla foglie, che cerca di mettere a fuoco i dispositivi relazionali entro cui si formano i lavoratori – postmoderni e “flessibili” – delle grandi catene di supermercati. L’analisi delle dinamiche identitarie che si svolgono in queste aziende emergono dalle testimonianze dirette di diversi lavoratori che hanno partecipato ad un cantiere di ricerca il cui scopo era di tratteggiare i modi di funzionamento di un’immaginaria azienda totale ed i tentativi di resistenza che le soggettività in questione mettono in atto per rispondere alla spinta disumanizzante cui sono sottoposte.
Finalmente i lavoratori del commercio cominciano a reagire e a mostrare la polvere che si cela sotto il tappeto della loro cattiva occupazione e questo anche attraverso la comunicazione orizzontale offerta dai social network e dal loro effetto moltiplicatore, riuscendo addirittura a contrastare i canali pubblicitari classici di cui si servono le multinazionali. Il caso della lettera che le lavoratrici USB hanno indirizzato a Luciana Littizzetto (la testimonial nazionale di Coop), che ha scatenato un pandemonio mediatico approdato negli studi di La7, e della pubblicità della McDonald’s che ha irritato non poco i sindacati di categoria ed i lavoratori che già da tempo si sfogavano in rete, ne sono un chiaro ed inequivocabile segnale.
La cosa che colpisce è l’omologazione del meccanismo di difesa utilizzato da due aziende così diverse tra loro sia nella forma societaria (mentre il fine ultimo delle società di capitali diverse dalle coop è la realizzazione del lucro e si concretizza nel riparto degli utili patrimoniali, le cooperative hanno invece uno scopo mutualistico, che consiste – a seconda del tipo di cooperativa – nell’assicurare ai soci il lavoro, o beni di consumo, o servizi, a condizioni migliori di quelle che otterrebbero dal libero mercato), sia nel tipo di servizio offerto al consumatore finale.
Ma analizziamo le risposte delle due aziende ai mal di pancia di lavoratori e sindacati:
le donne della Coop, attraverso la loro provocazione, hanno posto al centro del dibattito quattro questioni di fondo: salario, part-time, discrezionalità e libertà. Unicoop Tirreno ci racconta che un lavoratore su due ha un contratto part-time ma non dice che il part-time non è quasi mai una libera scelta della lavoratrice, è l’unica possibilità che le viene offerta per essere assunta. La possibilità di migliorare questa condizione è remota e spesso non passa attraverso il merito o l’anzianità, il risultato è un salario che si aggira sui 700 euro mensili. Chi fa il part-time ha bisogno di svolgere una seconda occupazione per mettere insieme un salario appena sufficiente ma questo è reso impossibile dall’organizzazione del lavoro messa in atto. I turni delle lavoratrici spesso vengono esposti il venerdì o il sabato della settimana precedente e variano in continuazione a seconda delle esigenze dell’azienda e non nel rispetto dei tempi di vita e della cura delle famiglie. A volte, sempre per le esigenze dell’azienda i turni vengono cambiati per telefono nella stessa giornata. Sempre Unicoop Tirreno dice che il 31% dei part-time ha beneficiato tra il 2011 ed il 2012 di incrementi dell’orario di lavoro, ma non specifica che questo incremento è quasi sempre temporaneo e discrezionale. La speranza di poter ottenere questi incrementi costituisce uno degli strumenti preferiti dall’azienda per mantenere sotto ricatto chi lavora. Ed è questa discrezionalità e ricattabilità che le donne hanno voluto segnalare con la lettera a Luciana Littizzetto. Chi vive la realtà di un supermercato o di un ipermercato sa benissimo che è difficoltoso anche poter andare in bagno ed è spesso necessario chiedere il permesso. L’esigenza fisiologica viene considerata parte integrante dell’organizzazione del lavoro e del potere datoriale. E “denunciare, protestare o anche solo discutere le decisioni che ti riguardano non è affatto facile”.
McDonald’s afferma, quasi stesse in campagna elettorale, “Noi nell’Italia ci crediamo, per questo diamo lavoro a oltre 16.000 persone e ne assumeremo oltre 3.000 nei prossimi tre anni”. Ma quando si analizza il tipo di occupazione offerta si scopre che da McDonald’s circa l’80% dei lavoratori ha un contratto a tempo parziale di poche ore settimanali, ovviamente il part-time non è una scelta e determina condizioni salariali molto basse, il tutto appesantito dall’obbligo sistematico di prestare servizio in orario notturno, domenicale e festivo, con buona pace dei tempi di vita e di cura della famiglia. McDonald’s replica: «In questi primi giorni del 2013 abbiamo assunto 200 persone. A tempo indeterminato. Certo, molti contratti sono part-time, modalità assolutamente a norma di legge e che per alcuni può essere un’opportunità, come per gli studenti-lavoratori (il 30% della nostra forza lavoro)». Se andiamo a curiosare sul sito dalla Mc Donald’s Italia, inoltre, scopriamo che: “Chi decide di lavorare da McDonald’s deve avere voglia di darsi da fare, di imparare a fare diverse cose in modo impeccabile, di sostenere la pressione nei momenti di picco, di rendersi disponibile quando c’è bisogno di una mano (…) Nei ristoranti McDonald’s è fondamentale attenersi a tempi stabiliti, per la preparazione del cibo, per l’igienizzazione delle mani, anche per andare al bagno, come avviene in tutte le attività professionali in cui il rispetto coordinato dei tempi è un fattore chiave per la qualità del lavoro!” E ci risiamo, IL BAGNO, ostacolo insormontabile della produzione commerciale, tarlo allo studio di tutti i responsabili relazioni sindacali delle aziende e delle associazioni datoriali, vizio dei milioni di addetti del settore e responsabile inequivocabile della crisi globale, tanto che la testimonianza di un dipendente di un punto McDonald’s di Milano, tratta da “L’Inkiesta”, recita testuale: “ I capi ti concedono appena 58 secondi per andare in bagno, tanto che qualcuno arriva a chiederti pure di timbrare il cartellino.” Almeno Mc Donald’s ha trovato la soluzione e quantificato i tempi per l’esigenza fisiologica dei propri addetti.
L’omologazione evidente dei meccanismi di difesa sembra ricalcare l’omologazione altrettanto evidente dell’organizzazione del lavoro messa in atto dalle multinazionali del settore, cambiano i linguaggi, a seconda della nazionalità dell’azienda, ma la filosofia organizzativa è la stessa e tende a comprimere verso il basso i salari ed i diritti dei lavoratori, finanche quello di far pipì. Il sussulto, ancora in ordine sparso, dei lavoratori di queste nuove FABBRICHE METROPOLITANE assomiglia ad una embrionale presa di coscienza operaia.
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