Cosa significhi il decreto lavoro approvato definitivamente dalla Camera, col solito voto blindato di piddini e berlusconiani di complemento o in servizio attivo, è chiaro solo se si guarda a come lo accolgono le imprese. E il loro giornale.
L’editorale di Alberto Orioli, oggi sul Sole24Ore, non potrebbe essere più illuminante neppure volendolo. Dà atto a Renzi – e alle consorterie impresentabili che lo sostengono – di aver realizzato “il sogno” degli imprenditori da vent’anni a questa parte: “ i contratti a termine possono durare fino a 36 mesi senza causale”.
Dimentica di aggiungere: “e senza alcun obbligo alla trasformazione del rapporto in contratto a tempo indeterminato”. Diventerebbe forse troppo evidente, a quel punto, la controrivoluzione ottocentesca messa in cantiere da Renzi & co. (e prima di lui, in misura incompleta, da tutti i governi degli ultimi venti anni): rendere tutti i lavoratori “liquidi”, risorsa impiegabile solo se e quanto serve, usa-e-getta. Per tutta la vita, non solo per 36 mesi.
Ma “questo è solo il prologo”, ricorda giustamente l’editorialista padronale. Il Parlamento dovrà a breve affrontare la discussione sulla “legge delega” incaricata di ridisegnare complessivamente tutto il mercato del lavoro. E “la discussione sulla delega sarà l’antica sfida, profondamente radicata nel modello democratico e sociale del nostro Paese, su quale debba essere l’articolazione del rapporto tra capitale e lavoro e quale debba essere il raggio d’azione delle politiche pubbliche di promozione e sostegno dei cittadini”.
Bando alle ciance “obamiane”, alle necessità di presentarsi come un “premier 3.0”, il nocciolo vero è vecchio quanto il capitalismo: secondo loro deve comandare l’impresa, sempre e comunque e in ogni ambito, e lo Stato non si deve occupare di “proteggere i cittadini”, altrimenti questi ultimi si sentono titolari di “diritti”, accampano pretese, scioperano, vogliono contrattare il salario, ecc.
I lavoratori devono insomma presentarsi nudi come mendicanti sulla soglia di un posto di lavoro. Disposti a tutto, senza tutele di nessun genere, senza ambizioni di “retribuzione decente” (come ancora scrive, “assurdamente”, la Costituzione repubblicana).
Nessuna mediazione è possibile con le “esigenze del mercato”. Nemmeno quella, davvero minima, di “ammortizzatori sociali” quando l’impresa taglia, chiude, delocalizza, scappa. Nemmeno quella di “agenzie per l’impiego pubbliche”, perché “privato” è sempre meglio. Per le imprese. Anzi, diventa un terreno di business anche la collocazione degli schiavi al lavoro (chedere ad Adecco e Manpower come funziona e quanto ci si guadagna).
Tutto il resto sarebbe “ideologia”. Non solo l’art. 18 – considerato ormai un feticcio di cui non parlare più – ma persino la diatriba su “flessibilità in entrata o in uscita” che ha accompagnato la “riforma Fornero”.
In realtà, è chiaramente Orioli l’ideologo. Solo che fa questo mestiere al servizio di chi domina e pretende che il proprio dominio non si mai più – non diciamo nemmeno “messo in discussione” – “insidiato dal basso”, sottoposto a condizionamenti “umanitari” e pretese di mediazione. Ideologo dell’assolutismo imprenditoriale, insomma, non certo libero pensatore indipendente…
Non mancano gli “avvertimenti” a Renzi, comunque. Si tolga dalla testa – o almeno dalla retorica quotidiana – l’idea che siano possibili ancora delle “politiche passive” (tipo la cig o l’indennità di disoccupazione). Le uniche politiche ammesse in futuro dovrebbero essere quelle “attive”; ossia quelle che costringono ogni essere umano a uscire di casa (se ce l’ha) e andare a bussare alle porte di un’impresa con il cappello in mano, a chiedere la carità di un lavoro temporaneo, comunque retribuito.
Idem per il “salario minimo”. In fondo – ed è l’accusa più pesante che si possa fare, dal nostro punto di vista, ai sindacati “complici” – nei contratti aziendali sostitutivi di quelli nazionali Confindustria è riuscita ad andare molto al di sotto di qualsiasi “minimo”.
Dovremmo insomma ringraziare Orioli e IlSole per aver squadernato così esplicitamente il senso vero delle “riforme strutturali” che l’Unione Europea e il capitale multinazionale vanno imponendo a tutto il continente (non solo all’Italia). Ma chissà perché non riusciamo a sentirci così grati…
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Politiche per il lavoro non più per il posto
di Alberto Orioli
Meline dell’ultim’ora a parte, in poco più di 50 giorni, dopo una doppia lettura in entrambe le Camere, il Parlamento avrà sancito che i contratti a termine possono durare fino a 36 mesi senza causale. Se ne parlava da almeno 20 anni. Senza costrutto. Il decreto lavoro, destinato oggi a diventare legge, è un compromesso non troppo distante dal testo originario del ministro Giuliano Poletti, anche se mantiene alcune “trappole” in tema di soglia di stabilizzazione per l’apprendistato e di sanzioni sul vincolo delle quote di contratti a tempo sul totale dell’organico. Ma è solo il prologo di un vero programma riformista la cui realizzazione è adesso affidata al disegno di legge delega incardinato al Senato.
Sarà questo il cuore del cosiddetto “jobs act” voluto da Matteo Renzi. Non avrà nulla di obamiano e sarà tutt’affatto diverso dagli slogan affidati ai tweet da campagna elettorale. È sparita, per adesso, l’epopea dei lavori digitali, la fascinazione dei nuovi makers, gli artigiani 3.0, nuovo cuore del lavoro renziano e l’idea di incentivare i settori avanzati per un’Italia del futuro.
Tolta la patina “comunicativa” la discussione sulla delega sarà l’antica sfida, profondamente radicata nel modello democratico e sociale del nostro Paese, su quale debba essere l’articolazione del rapporto tra capitale e lavoro e quale debba essere il raggio d’azione delle politiche pubbliche di promozione e sostegno dei cittadini.
E non sarà irrilevante l’esito delle prossime elezioni europee. Un buon punto di partenza sarebbe quello di prendere atto, ad esempio, del fatto che il contratto a termine acausale di durata triennale ha tolto dall’orizzonte l’idea del contratto unico a tutele graduate che, in una delle ipotesi più accreditate e su cui è più forte il consenso, sarebbe anch’esso di durata triennale. È evidente che qualsiasi impresa preferirà il contratto a tempo a qualsiasi altra forma di ingaggio, a meno che non risulti estremamente incentivata, ma ciò non sembra alle viste.
Concentrare l’attenzione su altri temi strategici più rilevanti probabilmente risparmierebbe al Paese l’ennesima discussione – destinata, soprattutto in Parlamento, a essere punteggiata da personalismi e ideologismi – sull’articolo 18.
Il primo vero test del coraggio riformista del nuovo Governo dovrebbe essere la suddivisione delle risorse tra politiche passive (previdenza e assistenza) e quelle attive (promozione dell’incontro tra domanda e offerta di lavoro e formazione del capitale umano). Non è dilemma da poco: è il cuore delle scelte del welfare. L’Italia non fa politiche attive: destina tutte le risorse per previdenza e assistenza, mal fatta e poco produttiva. Il simbolo di questa cattiva piega è lo “scippo” fatto ai fondi interprofessionali dell’industria, destinati alla formazione, per coprire i costi della cassa integrazione in deroga.
Il retropensiero è che il lavoro sia il “posto” da trascinare a vita, anche se il mercato non lo consente, proteggendolo con gli ammortizzatori sociali, ordinari, straordinari e infine in deroga. Ha senso nei momenti di massimo impatto della recessione, ma, in tempi di risalita della congiuntura, è vincente l’idea che il lavoro sia il frutto delle occasioni di nascita e sviluppo d’impresa, delle buone idee che diventano azienda, dell’innovazione che diventa impiego di capitale umano, della mobilità sociale e geografica, della valorizzazione dei talenti e delle competenze. Non è un Paese sano quello in cui un sistema esasperato di garanzie e di protezione sociale ritarda (quando non impedisce) la modernizzazione e l’innovazione dell’impresa.
Puntare sulle politiche attive dovrebbe servire proprio a evitare questa involuzione. È il grande capitolo mai affrontato dalle riforme (ultima la legge Fornero) inchiodate sulla diatriba ideologica sulla flessibilità in entrata e uscita. Ma è qui che, invece, dovrebbe agire l’Agenzia per l’impiego prevista dalla delega. Non è chiaro quale sia il ruolo delle Regioni, finora depositarie, in base al Titolo V, delle competenze, ma totalmente inefficienti, soprattutto al Sud, su formazione e su gestione dell’incontro tra domanda e offerta di lavoro. Renzi e Poletti dovranno essere molto persuasivi verso questo soggetto istituzionale.
Sarebbe meglio un soggetto nazionale magari frutto di una partnership pubblico-privata fondata sulla sussidiarietà visto che le agenzie per la somministrazione private oggi sono molto efficienti (e il nuovo contratto a termine di 36 mesi toglierà dal mercato molte posizioni di lavoro interinale): a questo soggetto dovrebbe spettare la gestione dei sussidi legati alla disponibilità a lavorare, la formazione e l’affidamento di voucher utilizzabili, dai lavoratori da assistere, presso le imprese. L’importante è poter creare un efficiente sistema di controlli, concentrando in un unico soggetto erogazione e vigilanza, altrimenti l’Italia diventerà, ancora una volta, il regno delle truffe.
L’idea di disegnare un ammortizzatore sociale universale non sembra andare nella direzione di una maggiore attenzione alle politiche attive: anzi, fa pensare che il nuovo welfare renziano potrebbe aumentare enormemente i costi, allontanandosi tra l’altro dall’obiettivo di ridurre il cuneo fiscale. Il Governo dovrà poi vedersela con quei settori che finora non hanno utilizzato forme di finanziamento assicurativo (artigiani e commercianti) per i loro ammortizzatori e dovrà spiegare a categorie con collaudati fondi bilaterali (come i bancari) che si azzera tutto.
Il tema dei costi esploderà soprattutto se sarà confermata l’idea di puntare anche sul salario minimo sperimentale, risposta renziana alla fascinazione di origine grillina (che pensa a un vero e proprio salario di cittadinanza a prescindere dal lavoro). Il salario minimo ipotizzato dal Governo (la determinazione per legge del compenso per ora lavorata), alla lunga, estromette le parti sociali dalla contrattazione nazionale, azzerando di fatto tutti gli sforzi che imprese e sindacati hanno fatto per creare un’architettura flessibile per la gestione della contrattazione di primo e secondo livello. Non è detto che ciò agevoli la contrattazione aziendale; laddove esiste ha di fatto soppiantato i contratti nazionali ma non ha spostato l’asse del confronto sui luoghi di lavoro. È un azzardo rispetto al modello sociale e di relazioni industriali. E, soprattutto, allontana l’obiettivo di ridurre il peso del cuneo fiscale.
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