Il lavoro ha molte facce, ma quello delle donne è regolarmente messo in secondo piano, e non solo sul piano salariale.
Pubblichiamo qui due storie di donne al lavoro o tagliate via dalle ristrutturazioni. Ci sembrano esemplari e capaci di far riflettere anche chi, del mondo del lavoro, proprio non riesce a comprendere la radicalità. Che non è contenuta in una particolare “forma di lotta”, ma nel mettere ogni singolo lavoratore – soprattutto se donna – di fronte ad un avversario spietato: il padrone. E quando decide di lottare, lo fa sempre sapendo che la battaglia è lunga, durissima, senza sconti, ma necessaria. Che si può vincere o perdere, ma in cui è fondamentale soprattutto non perdere se stessi. Anzi. E’ proprio nel conflitto che si scopre quanto si vale davvero, che ci si trova.
Alitalia: la disoccupazione in rosa
di Francesco Iacovone
E’ innegabile che siano le donne, quelle che più di tutti stanno pagando la crisi, quelle che hanno subito e continuano a subire i maggiori attacchi ai diritti faticosamente conquistati, al sessismo nel lavoro e alla discriminazione di genere. Si potrebbero raccontare migliaia di storie di donne, farne un mosaico rappresentativo della società in cui viviamo. L’ aspetto più drammatico di questa situazione è il profondo senso di solitudine che attanaglia le donne, la disoccupazione rosa non fa notizia, e come spesso accade le donne finiscono sui tabloide per questioni molto diverse, che aggravano il senso di frustrazione generale. In questo mosaico di donne invisibili e discriminate,possiamo parlare delle donne di Alitalia che sono tra le prime ad aver assaporato, in una delle più grandi aziende industriali del paese, cosa rappresenti essere donna nel mondo del lavoro.
Comincia così la mia chiacchierata con Susi, una sindacalista USB di Alitalia ma ancor prima una persona che stimo, con una sensibilità fuori dal comune.
Appartengo a quelle 10.000 persone che nel 2008 sono state licenziate dalla vecchia compagnia di bandiera, un piccolo paese di lavoratori e precari, uomini e donne, ma anche famiglie e speranze. Licenziati, senza nessun criterio oggettivo di legge, considerati come “materiale umano” da utilizzare secondo necessità, nella più grande privatizzazione della storia recente del nostro paese. Molti tra questi lavoratori erano genitori di disabili e madri sole. Molti erano sindacalisti scomodi.
Insomma, una storia fatta di uomini e donne, una vertenza che nasconde dietro ogni singolo posto di lavoro una storia fatta di sangue e carne. Una vertenza di quelle che tracciano un solco, che determinano un cambiamento radicale nelle relazioni industriali di tutto il paese e che incidono nella vita di tutti i lavoratori, nessuno escluso. Susi prosegue nel suo racconto, con passione e rabbia:
Da coloro che sono stati espulsi dal mondo del lavoro perché pensionabili e molti, soprattutto donne, non lo sono più, a coloro che sono stati lasciati a casa senza nessuna prospettiva perché discriminati. Ai precari, i nuovi schiavi invisibili. Solo chi ci è passato sa che cosa si provi ad alzarsi una mattina e perdere tutto. Il lavoro, il futuro, l’identità. Essere accompagnati alla porta, perché da quel momento non servi più all’azienda per cui hai lavorato per dieci venti, trent’anni. Magari dopo anni di precariato.
Che cosa voglia dire essere un uomo o una donna di quaranta, cinquant’anni e avere la preoccupazione di non riuscire più a rientrare nel mondo del lavoro perché troppo giovani per andare in pensione e troppo vecchi per trovare lavoro. E come si senta un padre di famiglia nel guardare il proprio figlio sapendo di non essere più in grado di provvedere al suo futuro. Si è fatta molta critica sulle proteste di chi sta perdendo il lavoro o sugli ammortizzatori sociali che nel trasporto aereo sono considerati da privilegiati. Peccato che, molto spesso, chi ci finisce entra in un purgatorio prima di essere definitivamente disoccupato. Mentre al posto di chi è in cassa o mobilità c’è un precario o uno sfruttato, semmai con contratto estero sottopagato.
Quello che accade oggi in questo settore, dalle compagnie aeree, agli handlers, alle manutenzioni, alle attività commerciali, rappresenta un sistema fatto di discriminazioni, abusi, indifferenza, in cui i lavoratori sono lasciati soli, non solo dall’azienda, ma dalle istituzioni e da una parte del sindacato molto più impegnato a non disturbare il conduttore che farsi garante del sacrosanto diritto al lavoro. E’ il risultato delle grandi privatizzazioni in cui a fronte degli interessi di pochi si sta minando la tenuta stessa della società.
Sei anni fa il fallimento di Alitalia ha rappresentato una grande campagna elettorale insieme alla “monnezza” di Napoli. Oggi tutte le aziende di questo settore sono in una crisi sistemica senza precedenti. I fiumi di denaro speso per gli ammortizzatori sociali e il dispendio economico di risorse della collettività, sono una bestemmia per la società stessa. Soprattutto se pensiamo che molto spesso gli amministratori delegati, dopo aver fatto fallire le società, escono con premi da capogiro.
Quella di questo settore è una storia, fatta di bad company e good company, di salvataggi di banche e distruzioni di migliaia di posti di lavoro. La storia di aziende che erano e sono le persone che ne portano l’immagine nel mondo. Una storia fatta di ricordi e di passione, ma anche di dolore personale e collettivo. E’ giusto raccontare questi anni bui perché la memoria ci restituisca la dignità, perché dietro ogni posto di lavoro c’è sangue e carne. E’ urgente rimboccarsi le maniche perché quello che è accaduto a migliaia di persone non deve accadere mai più.
Susi ci ha ben rappresentato quanto accade oggi in Alitalia. Tutto ciò non è che il completamento di un “lavoro” iniziato qualche anno fa, il compimento di un nuovomodello di relazioni industriali che non fa prigionieri, spietato e violento, che non riguarda soltanto l’Alitalia, non riguarda soltanto Susi. Riguarda tutti noi e tutti noi possiamo rileggerci la nostra storia personale.
Buona lotta Susi, buona lotta a tutti noi!
* da http://www.francescoiacovone.com/
ééééé
Le fortunate di Melfi
di Ape Operaia *
Ripubblichiamo questo racconto di alcune operaie della Sata (FCA) di Melfi. La produttività tanto decantata da Marchionne cosa significa per la vita dei lavoratori, e delle donne in particolare, dato il doppio carico di lavoro cui sono sottoposte? Cosa significa lavorare anche la domenica? Cambiare continuamente turno? Essere costretti a lavorare a ritmi sempre maggiori?
Da qualche settimana è iniziata la sperimentazione dei nuovi turni alla Fca di Melfi ed è già possibile descrivere una situazione tutt’altro che felice per noi donne.
Si lavora 6 mattine, dalle 6 alle 14, da lunedì a sabato; poi si riattacca domenica sera alle 22, per 4 notti di seguito; poi due giorni di riposo, 3 pomeriggi di lavoro (compresa una domenica), due giorni di riposo, 3 notti di lavoro, due riposi e altri 4 pomeriggi di lavoro. Finalmente una domenica di sosta, ma lunedì alle 6 si ricomincia daccapo. E’ come vivere in un continuo cambio di fuso orario.
Già i primi 10 giorni ci hanno sfinite, le ore in fabbrica si trascorrono in piedi davanti a una catena sempre più veloce perché, grazie al “sistema migliorativo Ergo uas”, tutto il materiale ci arriva direttamente in postazione su carrellini trainati dai robot automatizzati che spesso perdono pezzi per strada o si fermano e non vogliono saperne di ripartire. Loro non sentono le minacce dei capi, decidono di non lavorare più e così è se vi pare.
Le operazioni sono tutte cronometrate e le postazioni saturate; in teoria dovremmo star ferme ad assemblare comodamente tutto ciò che ci arriva ma in realtà si cammina, anzi, si insegue la linea e ci si “imbarca”, ossia ci si allontana sempre di più dai confini della postazione disegnati sul pavimento. Basta un qualunque imprevisto, una vite sfilettata o un semplice starnuto, per rendere spasmodica la risalita. A volte ci paragoniamo ai salmoni e speriamo che non ci attenda la stessa sorte.
Quando si avvicina la pausa c’è il conto alla rovescia dei minuti e scherzando ci chiediamo cosa riusciremo a fare in quei 10 minuti: andiamo al bagno, fumiamo o mangiamo qualcosa? Magari potremmo fare la fila davanti al bagno mangiando il panino, nella peggiore delle ipotesi almeno una cosa l’avremo fatta!
I bagni sono pochi rispetto al numero delle persone, così anche i distributori di caffè e merende circondati da sei o sette sedie – pochissime – a creare una piccola area relax; le file sono lunghe e il caffè conviene dividerlo con uno o due colleghi. Abbiamo chiesto più bagni o qualche minuto in più di pausa: qualche capo spiritoso ci ha suggerito di non bere per ridurre le esigenze fisiologiche. Chi trascorre la pausa in postazione si appoggia ai cassoni o si siede su una cassettina vuota e, anche se non si potrebbe fare, mangia qualcosa.
I primi dieci giorni consecutivi di lavoro sono stati devastanti, avevamo i polsi, i polpastrelli e tutti i muscoli indolenziti. I due giorni di riposo li avremmo dedicati alle faccende di casa, in teoria, ma la stanchezza era tanta e non siamo riuscite a fare tutto. Al rientro in fabbrica avevamo la sensazione di non esserne mai uscite, nessuna di noi è riuscita a realizzare tutti i propositi in quei due giorni e qualche capo, sempre più spiritoso, ha suggerito di mettere “un aiuto in casa”… Magari che si occupi anche dei nostri affetti? No grazie!
Seguire i bambini e aiutarli nei compiti è un’altra impresa: durante il turno di pomeriggio non riusciamo quasi a vederli, mentre con i turni di mattina e notte cerchiamo di recuperare e di dare il massimo. A volte tentiamo di colmare l’assenza facendo loro dei regali, oppure siamo eccessivamente tolleranti, altre volte invece ci si arrabbia per poco o niente a causa del nervosismo e della stanchezza. Sono molti i casi di coniugi che si sono separati e lavorano in squadre diverse per far sì che uno dei due sia a casa in assenza dell’altro, ma con la nuova turnazione ci ritroviamo a fare anche due turni diversi nella stessa settimana e se uno dei coniugi è stato posizionato sulla linea di produzione della Grande Punto, dove si lavora una settimana di mattina e una di pomeriggio, capita di ritrovarsi nello stesso turno per cui bisogna cercare una persona affidabile che accudisca i bambini in nostra assenza e che abbia la possibilità seguire questi nuovi orari.
Intanto sono arrivati i nuovi assunti, tanti ragazzi e ragazze che potrebbero avere l’età dei nostri figli; alcuni hanno iniziato con entusiasmo, altri con rassegnazione: tutti hanno portato una ventata di freschezza e di novità. I loro giovani volti sono già segnati dalle occhiaie, spesso l’auto dell’infermeria passa per soccorrerli, qualcuno ha già mollato, qualcun altro è stato più fortunato e si trova a svolgere un lavoro meno faticoso. Lavorare con questi ragazzi in difficoltà mette una grande tristezza e la voglia di aiutarli in qualche modo, ma non poterlo fare ci da un senso di impotenza.
E’ opinione comune che noi topolini di questo grande laboratorio siamo fortunati: a Melfi si lavora! E in effetti ci sentiamo stanche e indolenzite ma anche fortunate. Viene da chiedersi se non sarebbe più giusto ripartire questa “grande fortuna” con altri operai, diminuendo le ore di lavoro e aggiungendo altri turni come hanno fatto i nostri colleghi tedeschi in passato, con ottimi risultati.
Siamo come i salmoni che risalgono la corrente quando cerchiamo di recuperare la postazione; siamo i robot instancabili che non devono conoscere le festività; siamo i topolini di un nuovo esperimento. Siamo le fortunate operaie di Melfi.
* da ClashCityWorkers
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