Questa mattina l’Istat ha reso noti i dati sull’occupazione relativa al mese di marzo. A un primo sguardo sembrerebbero quasi buone notizie, e già immaginiamo la retorica con cui proveranno a essere divulgati, tronfia del “paese che tiene” (qui una primissima prova) e del “andrà tutto bene” necessario alla Confindustria per costruire le condizioni di una riapertura rapida.
Mese su mese infatti l’occupazione cala solo dello 0,1%, pari a 27mila unità, mentre diminuisce anche il tasso di disoccupazione, sceso al 8,4% (-0,9% rispetto a febbraio) e al 28% (-1,2%) tra i giovani.
Tuttavia, il boom si registra nella componente degli inattivi, ossia quegli individui in età da lavoro che non effettuano nessuna ricerca di impiego perché, come vengono plasticamente definiti, “scoraggiati” circa il possibile esito positivo della ricerca. Questi aumentano di ben 301mila unità, +2,3% su febbraio, il triplo tra i maschi rispetto alle femmine, portando il tasso di inattività al 35,7%.
Una precisazione prima di analizzare brevemente questi numeri nel contesto attuale: l’Istat scrive che «l’indagine ha risentito degli ostacoli che l’emergenza sanitaria in corso pone alla raccolta dei dati di base», e nonostante siano state «sviluppate azioni correttive che ne hanno contrastato gli effetti statistici negativi (…), la ridotta numerosità campionaria non ha tuttavia consentito di diffondere i dati con il consueto livello di disaggregazione», riservandosi in seguito la possibilità di «revisioni sulla base di ulteriori analisi».
Fatta questa dovuta premessa, torniamo ai dati disponibili.
Innanzitutto c’è da ricordare che il paese si presentava a questa crisi con uno dei mercati del lavoro meno efficienti della regione, facendo registrare il secondo peggior risultato in tutta l’Unione europea davanti solo alla Grecia e ben distante dalla media dell’area.
A febbraio infatti aveva un impiego solo il 58,9% della popolazione in età da lavoro (media Ue ben oltre il 70%), e questo significa che più di 4 persone su 10 nel paese non aveva, e continua a non avere, accesso a una fonte di reddito da lavoro.
Un’enormità, se pensiamo invece alla tranquillità con cui si sciorinano di solito i dati sulla disoccupazione, apparentemente oggi in calo al 8,4%.
In realtà, per come presentate le statistiche pongono un velo sulla situazione concreta del paese, dove quel poco lavoro che c’è (circa 23,3 milioni di posizioni registrate a inizio anno) è continuamente meno stabile e dunque più atipico, con tanti contratti temporanei (la quasi totalità delle nuove assunzioni nel 2019 cadeva in questo campo), a tempo ridotto e in generale meno tutelato (soprattutto grazie al “Jobs act” targato Pd).
Come scritto ieri da Alessandro Perri, in questo contesto di fragilità un ruolo per il momento decisivo lo sta giocando il blocco dei licenziamenti, ma il dato da tenere a mente è che al 28 aprile ben 7,8 milioni di lavoratori e lavoratrici beneficiano della Cassa integrazione ordinaria e in deroga (qui solo per 30mila unità).
Questo è il numero delle persone che con l’inizio della “fase 2” non avranno la sicurezza, almeno in parte, di mantenere il posto di lavoro – sono infatti considerate occupate perché gli ammortizzatori sociali compensano il fermo-attività delle rispettive aziende, ma quante di queste avranno la forza di ripartire? –, con tutto quello che ne consegue in termini di sicurezza sociale.
A loro vanno aggiunti le 13,6 milioni di persone in età da lavoro che hanno perso le speranze di trovare un’occupazione, più i 2,1 milioni che un impiego, pur cercandolo, non riescono a trovarlo. Il tutto, chiaramente, al netto del sommerso e del lavoro nero, una piaga durissima per il paese.
In questo contesto, non regge neanche la storia dei “fannulloni che non vogliono lavorare”. Infatti a febbraio 2020 un rapporto di Unioncamere recensiva le nuove posizione aperte (che non coincidono per forza con eventuali nuovi occupati) per un numero pari a 320mila, di cui il 31% sarebbero state di “difficile reperimento”.
Questo significa che prima della diffusione della pandemia, il mismatch tra le imprese in cerca di dipendenti e il mercato del lavoro ammontava a circa 100mila posizioni (di nuovo, non di occupati). Un’inezia, rispetto al totale dei non-occupati presenti sul territorio.
Eccola dunque la dimensione della bomba sociale pronta a esplodere in un contesto di recessione economica certa, anche se non si sa ancora quanto profonda e duratura, dove inoltre serpeggia il fantasma di una nuova ondata di contagi, soprattutto se il governo continuerà a fare i voleri di Confindustria e Confcommercio.
Se c’è qualcosa che tiene in queste settimane è il tanto vituperato (dai liberisti di tutte le risme, neo-, ordo-, ecc.) ruolo dello Stato nel momento del bisogno, nonostante le mannaie che si sono abbattute sul welfare state nell’ultimo trentennio.
Ma anche qui, il dibattito in corso nell’Ue non fa ben sperare, visti i pochi sostegni e le trappole di condizionalità a cui l’esecutivo sta cedendo pur di non rompere il vincolo di subalternità verso gli altri Stati membri del continente.
Se aggiungiamo che tra giugno e settembre terminerà anche il blocco degli sfratti – questo in realtà gestito a livello regionale, a proposito di decomposizione del ruolo dello Stato – il quadro è fosco abbastanza da rigettare ogni mitigazione delle incertezze a cui si appresta il paese per voce di qualche freddo dato, magari preso singolarmente e decontestualizzato.
Sì, l’occupazione a marzo rispetto al mese precedente decresce solo di 0,1 punti percentuali.
Alla luce di quanto scritto, vi sembra ancora una buona notizia?
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