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Lo Stato a-sociale

L’inadeguatezza del Servizio sanitario nazionale, il disordine delle risposte amministrative e la subalternità degli interventi legislativi agli interessi della borghesia produttiva sono i tre elementi politici che affiancano la tragedia umana causata dal propagarsi dei contagi e delle vittime da Covid-19.

Le continue sforbiciate alle risorse destinate alla sanità operate da tutti i governi che sono alternati negli ultimi decenni, la decentralizzazione da Roma di alcuni poteri decisionali decisivi per la stabilità di un assetto statuario cominciate con al riforma del Titolo V voluta dalla Lega (e di cui l’autonomia differenziata non sarebbe altro che il tassello mancante), e la sottomissione ai voleri della Confindustria nei decreti fin qui posti in essere per affrontare l’espansione del virus, sono tre diverse espressioni di un fenomeno divenuto innegabile con l’“emergenza coronavirus”, e che proveremo a fissare in una breve serie di numeri esemplificativi.

Stiamo parlando della “privatizzazione dello Stato”, dell’“occupazione delle istituzioni” da parte di mediocri funzionari del capitale, o come intitolammo una breve pubblicazione nel lontano 1998, da cui il titolo, dello “Stato a-sociale”.

Le tendenze che oggi mettono a serio rischio l’ordine sociale basato sulle competizione individuale e sulle leggi del mercato, in quegli anni pompavano tronfie l’ideologia della fine della storia e della vittoria irreversibile di un certo modello di sviluppo, con la consequenziale organizzazione delle istituzioni adibite a dare quella precisa forma alla società, di cui il Trattato sull’Unione europea firmato a Maastricht nel 1992 avrebbe dovuto essere, per questo pezzo di mondo, il punto di non ritorno.

Luogo fisico su cui si esprimevano quelle tendenze era, tra gli altri, proprio lo Stato, il quale veniva spogliato delle funzioni mitigatrici, ma non di quelle repressive, che avevano registrato le vittorie del lungo ciclo di lotte operaie e avevano ampliato il reddito sociale con una serie di istituzioni (sanità, istruzione, previdenza, edilizia, ecc.) che rendevano la riproduzione della forza-lavoro, a parità di gerarchia sociale, più dignitosa.

Quelle tendenze non si sono affatto invertite con il nuovo millennio. Ma se negli anni Novanta a farla da padroni furono la cessione delle funzioni produttive dell’apparato statale tramite le privatizzazioni delle aziende pubbliche strategiche (Stet, Enel, Eni ecc.), nonché degli enti partecipati locali, nel nuovo millennio lo “Stato-comitato d’affari” è intervenuto sulla liquidazione del paracadute sociale, soprattutto sul versante della circolazione e della distribuzione del reddito, esternalizzando invece quella della circolazione dei capitali con la privatizzazione totale del sistema bancario (c’erano cinque “banche di interesse nazionale”, ora fagocitate).

Tutto ciò ha segnato, in termini economici, l’autoesclusione dell’intervento statale dall’economia. In termini politici, l’occupazione delle istituzioni da parte di funzionari conto-terzisti incapaci di visione autonoma e strategica e pertanto inadatti a gestire, come avviene oggi, situazioni extra-ordinarie. In termini sociali, una continua polarizzazione della composizione di classe che ha spinto “verso il basso” fette consistenti di popolazione, senza tuttavia che questo si traducesse in una reazione rivendicativa simmetrica all’arretramento delle condizioni sociali. Una enorme responsabilità, su questo fronte, va attribuita alle rappresentanze sindacali concertative (Cgil Cisl e Uil) e ai mezzi d’informazione.

Di questi tre ambiti ci occuperemo principalmente del primo, provando a comprovare con qualche numero l’attacco del capitale al campo del lavoro, attraverso l’uso privatistico dello strumento statale. Punto d’appoggio è la lettura dello Stato non come “ente neutrale” rispetto ai diversi interessi perseguiti dagli strati sociali, ma come “strumento” tramite cui le élite perpetuano e rinnovano l’organizzazione sociale funzionale alla divisioni in classi della società stessa.

La fine delle scorpacciata delle partecipate statali – liquidazione dell’Iri, realizzata da Romano Prodi – ha visto rivolgere l’attenzione dei capitali verso quei settori che erano rimasti appannaggio del controllo pubblico, e cioè i servizi, permettendo cicli di accumulazione in quelle “voci di spesa” che più di tutte contribuivano al salario sociale.

Una prova di questo “cambio di preda” lo possiamo fornire dando uno sguardo al bilancio dello Stato, e in particolare a una serie di voci della spesa pubblica.

Per cominciare, notiamo come – nel 2019 – le “uscite totali della pubblica amministrazione” valevano il 48,7% del Pil (di poco superiore alla media dell’Eurozona). Il dato oscilla negli ultimi venti anni, passando dal 47,1% del 1999 al in il 51,1% del 2009 (percentuale “drogata” dal crollo del Pil post-crisi), ma registra comunque una flessione relativa importante con l’inizio della “Seconda repubblica”, quando valeva il 54,5% del prodotto interno lordo (1994).

Quello che interessa, tuttavia, è evidenziare i trasferimenti interni delle quote di spesa, per capire “chi ci ha guadagnato” e a spese di chi.

Nella dimensione del ruolo dello Stato nella circolazione del reddito, raggruppiamo allora per comodità le componenti della spesa pubblica in tre macro aree: i) per la riproduzione dell’apparato amministrativo; ii) per la riproduzione sociale; iii) per il sostegno al capitale.

i) La “spesa totale” per la riproduzione della Pa nel 2019 era il 18,7% del Pil, dato di 1,2 punti percentuali superiore a quello del 1999 e di quasi 2 punti inferiore al 2009, quando la crisi dei mutui subprime mordeva forte anche in Europa.

In questa quota più o meno stabile in termini relativi, è interessante registrare come sia aumentata la spesa per la “difesa”, passata dal 5,8% al 6,4% (quasi raddoppiata in termini assoluti), con una sproporzione per gli “aiuti militari all’estero” (le “missioni umanitarie”), passati da 41 milioni a 1,1 miliardi messi a consuntivo dal 2009 (0,01%) al 2019 (0,3%). E’ invece fortemente diminuita la quota assegnata all’“istruzione” (22,7% nel 1999, 18,7% nel 2019) e quella per “famiglia e figli” (da 1,13 allo 0,9 per cento nel ventennio).

ii) Quest’ultima è peraltro da inserire nell’ambito più generale delle “prestazioni sociali” (assistenziali dunque, come malattia, invalidità o disoccupazione), che dal 4,4% della spesa totale nel 1999 passano al 4,9% del 2009 (dato, come si diceva, “drogato” dal crollo del Pil) e riscendono al 4,7% nel 2019, in controtendenza con la crescita continua dell’età media della popolazione.

Dal lato occupazionale e reddituale, la situazione non migliora affatto. Se nel 1999 i 3.600mila occupati nelle amministrazioni (a tutti i livelli) contavano per 83 miliardi sulle “uscite totali”, circa 43mila euro lorde per Ula – unità di lavoro; quindi non “teste” impiegate, ma “posizioni lavorative” ricondotte a misure standard a tempo pieno (esempio: 2 part-time a 20 ore fanno una sola Ula) –, nel 2019, 3.300mila lavoratori valevano per 120 miliardi, con una media di 27mila per unità di lavoro. Molta meno gente, insomma, e pagata molto peggio.

Il calcolo sulle retribuzioni lorde comprende «paga base, anzianità, mensilità aggiuntive e tutti gli elementi retributivi a carattere generale e continuativo». Il dato peggiorerebbe una volta scomputato quello dei dirigenti da quello di quadri e impiegati. Ma anche questo scorcio mostra il calo delle assunzioni accompagnato dalla decrescita delle retribuzioni assolute, peraltro in una dinamica inflazionistica che registra in media (1999-2019) un aumento annuo del 1,5%, e in controtendenza con quella occupazionale, che ha visto invece salire la forza-lavoro impiegata totale sul paese da 21.400mila nel T4 del 1999 a 23.800 mila occupati dell’ultimo trimestre dello scorso anno.

Questa veloce carrellata di dati mostra in breve come il ruolo delle istituzioni nel sostegno al reddito della collettività sia in costante arretramento.

In quest’ottica, in ambito previdenziale, la riforma Fornero, ritardando l’accesso al pensionamento, ha di fatto sottratto un’altra quota importante di ricchezza del paese prima destinata alla popolazione, venendosi a sommare con quanto descritto fin qui.

iii) Per quanto riguarda l’ultimo fronte – sostegno al capitale – il disinvestimento statale dall’ambito economico accennato in precedenza mostra il continuum iniziato almeno negli anni Novanta, con il “totale delle uscite in conto capitale” passato dal 4,3% del Pil nel 1999 al 3,4% nel 2019, anno in cui l’83,4% del “contributo agli investimenti” è stato “pagato alle imprese” (somma di poco inferiore ai 12 miliardi).

A questo va aggiunto, in primis, una riduzione delle scorte (nel 2009, ma anche nel 2019 questo indicatore ha fatto segnare il segno meno), sintomo della mancanza di prospettiva e del “navigare a vista”, tipico di un’assenza di strategia nei periodi di incertezza; e successivamente l’utilizzo della Cassa integrazione guadagni, che seppur computata come trasferimento alle famiglie, è in realtà uno strumento della strategia complessiva delle grandi imprese, che possono così scaricare sulla collettività i costi di attesa delle ristrutturazioni produttive. Le quali avendo come obiettivo un aumento della competitività / produttività, spesso si traducono in licenziamenti o un uso più flessibile della forza-lavoro, attenuandone in definitiva anche i possibili esiti salariali e conflittuali.

L’ultimo e più importate elemento. su questo punto, sono gli oneri degli interessi che lo Stato paga per finanziare il debito pubblico. Essendo il livello dell’indebitamento uguale alla differenza tra le entrate e le uscite, nelle casse del paese nel periodo considerato la percentuale annuale degli interessi passivi sul Pil è sempre stata superiore alla maggiore spesa (deficit) rendicontata a bilancio.

Questo significa che, in termini reali, se sottraiamo il pagamento di questi interessi (che non finiscono nel ciclo economico), lo Stato ha sempre reimmesso nell’economia meno moneta di quella che ha prelevato tramite la fiscalità generale. In altri termini, ha sempre presentato un saldo primario in attivo, impoverendo il reddito complessivo del Paese.

Inoltre, se consideriamo che gli interessi di qualsiasi tipo non sono altro che la proprietà sulla futura ricchezza prodotta da altri (plusvalore, dunque), e se aggiungiamo che circa l’80% del debito pubblico italiano è detenuto da investitori istituzionali residenti nel paese (banche, fondi assicurativi, obbligazionari o pensionistici ecc.), possiamo trarre la conclusione che la gestione del debito pubblico è un immenso trasferimento di valore dal mondo della produzione, ossia dal lavoro, a quello del capitale, in questo caso finanziario.

Per come è strutturata, l’Unione europea è stata allora un passaggio decisivo per garantire questa dinamica accumulativa di carattere speculativo, da cui la fervente adesione unanime della Confindustria e dal partito trasversale del Pil (Pd e Lega in testa, al di là degli “strilloni”).

Solo in quest’ottica possiamo leggere il famigerato divorzio tra la Banca d’Italia e l’allora Ministero Tesoro voluto da Beniamino Andreatta (Dc) nel 1981, che ha impedito alla prima di agire come “prestatore di ultima istanza”.

In poche parole, con quella legge, quando lo Stato metteva sul mercato titoli di debito per ricevere finanziamenti in denaro, la Banca d’Italia non poteva più acquistare “in sede d’asta” quei titoli; e quindi controllare il tasso d’interesse (meno erano richiesti e più ne acquistava e viceversa, calmierandone l’interesse) con cui quei titoli venivano venduti, consegnando la dinamica dei tassi di interesse (il “rendimento”) nelle mani degli speculatori finanziari.

Insomma, senza nessuna pretesa di esaustività, si è visto come il dogma neoliberista secondo cui le istituzioni “non devono interferire con le dinamiche economiche“, è in realtà un modo tramite cui il grande capitale, formato da multinazionali, istituti finanziari, fondi pensionistici e assicurativi ecc., giustifica l’utilizzo a proprio favore gli strumenti messi a disposizione dall’architettura statale, i quali divengono più importanti con l’aumentare delle incertezze date da periodi di crisi.

Ma quando questa crisi si mostra nella sua maniera più violenta, allora tutta l’inadeguatezza dei valori ideologicamente messi in campo dal “privato” – come individualismo di massa, competizione sfrenata, libertà economica – cozzano con la realtà dei fatti: questi comportamenti non sviluppano coesione sociale, benessere collettivo, solidarietà umana, lasciandosi dietro povertà e disintegrazione sociale.

Allora, una volta terminata queste emergenza sanitaria, dovremo essere in grado di affrontare quella politica ed economica facendo tesoro degli insegnamenti forniti da questo passaggio storico.

Niente dovrà tornare come prima.

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