I padroni fanno sempre il loro mestiere, finché i rapporti di forza lo permettono rimangono sordi alle richieste del mondo del lavoro, e appena possono – soprattutto in periodi di crisi– si rivolgono allo Stato per ricevere i sostegni necessari al “diritto di fare impresa”.
Lo abbiamo visto in questi giorni, dove la famiglia Agnelli-Elkann ha avuto l’ardire di chiedere allo Stato di farsi garante per i 6,3 miliardi di prestito che Fca ha chiesto a Banca Intesa, “poco fiduciosa” verso la casa americana britannica olandese e perché no anche italiana, visto il tonfo dell’automotive durante il lockdown e la rimodulazione delle catene del valore sull’orlo di una, parole del ministro degli esteri cinese Wang Yi, «nuova guerra fredda».
A distanza di pochi giorni è stato invece il cda del gruppo Benetton ha rendere pubblico un documento riportante minacce di azioni legali contro lo Stato in caso di mancata concessione della garanzia sui 1,2 miliardi del prestito che – anche a loro – le banche esitano a elargire considerato il tonfo, questa volta, della controllata di famiglia “Atlantia” dopo la strage del Ponte Morandi e i mancati profitti dai pedaggi autostradali nelle settimane di clausura forzata.
Al balletto dell’ignominia si è aggiunta ieri la Coldiretti, principale associazione datoriale degli imprenditori agricoli del paese, fondata dal democristiano Paolo Bonomi (un nome, una garanzia…) nel lontano 1944, con uno studio sugli effetti della pandemia sulla “fase 2” del settore.
«Addio ad un frutto su tre con il crollo del raccolto di frutta estiva in Italia, dalle albicocche alle ciliegie, dalle pesche alle nettarine», apre il testo, che si occupa di quantificare la produzione di quali alimenti sono e saranno maggiormente interessati dallo choc pandemico.
«Una situazione drammatica nelle campagne destinata ad avere ulteriori e pesanti effetti anche sull’andamento dei prezzi per i consumatori […], e a peggiorare la situazione è la previsione complessiva per la produzione di frutta nell’intero vecchio continente con una contrazione europea del raccolto del 37% per le albicocche e del 19% per pesche e nettarine rispetto al 2019».
Meno frutta nei prossimi mesi dunque, un “dramma” – ci pare – decisamente stridente con quanto successo negli ultimi 3 mesi nel paese. Ma si è già detto, i padroni fanno il loro lavoro e il loro-dramma di veder ridotti drasticamente i profitti si trasforma in quello dell’assenza delle nettarine dalle diete delle famiglie italiane, e più prosaicamente, nell’aumento dei prezzi sui banchi della frutta.
Una puntualizzaizone è d’obbligo: qui non si vuole sottostimare l’impatto che una crisi della catena di produzione alimentare potrebbe avere sulle popolazioni del Continente, ma come di fronte a tale eventualità (comunque non nell’orizzonte allo stato attuale) il punto di vista padronale sia immancabilmente quello del calo dei profitti, non dei bisogni delle persone.
Tornando all’aumento dei prezzi, questo per la verità era già ben presente per il portafogli dell’abitante medio da almeno fine marzo, quando le solite due buste della spesa avevano subito un rincaro consistente a cui andava sommata la riduzione di reddito disponibile e l’assenza-ritardo degli aiuti statali, specialmente per le figure sociali meno tutelate.
«Per gli agricoltori italiani al danno si aggiunge la beffa di essere costretti a lasciare i già scarsi raccolti nei campi per la mancanza di manodopera a seguito della pandemia Covid 19 che ha portato alla chiusura delle frontiere ai lavoratori stranieri che ogni anno attraversano il confine per un lavoro stagionale in agricoltura per poi tornare nel proprio paese».
Già, senza manodopera dall’“est Europa” o dall’Africa sub-sahariana quelle poche nettarine rimaste non possono neanche essere portate sulle nostre tavole.
Tuttavia la Coldiretti omette rigorosamente di ricordare che i “buoni prezzi” con cui quotidianamente i consumatori del paese acquistano frutta e verdura sono la conseguenza dei salari da fame che spesso questi «stranieri che ogni anno attraversano il confine per un lavoro stagionale» sono costretti ad accettare pur di portare, loro sì, il pane in tavola.
Niente di nuovo d’altronde, è il meccanismo della deflazione salariale tanto caro all’architettura dell’Unione europea – un circolo vizioso tra salari più bassi e prezzi competitivi – buono solo a mantenere il livello dei profitti delle imprese a livelli accettabili nell’arco delle crisi sistemiche, come quella che attraversiamo da un trentennio.
A questo punto, creato il bisogno, la Coldiretti lancia la proposta al mondo della politica, confidando nel placido ascolto a cui l’indecenza della classe dominante ha abituato l’asse imprenditoriale del paese.
«Per questo si attende l’annunciata apertura dei confini il 3 giugno ma serve anche subito una radicale semplificazione del voucher “agricolo” che possa ridurre la burocrazia e consentire anche a percettori di ammortizzatori sociali, studenti e pensionati italiani lo svolgimento dei lavori nelle campagne in un momento in cui scuole, università e molte attività economiche sono rallentate e tanti lavoratori sono in cassa integrazione».
Aprite e fate presto, meno burocrazia, voucher a semplificare (e a detassare) l’inserimento nelle campagne di studenti e pensionati.
Un vomito neoliberale intriso della peggior tracotanza di classe, pronta (non certo da ieri) a sacrificare sull’altare del profitto la salute (fine del confinamento, virus o non virus) e i diritti (allo studio per gli studenti, alla vecchiaia dei pensionati) dei cittadini.
Facciamo fatica anche solo a immaginare il momento in cui il testo ha ricevuto l’approvazione del “centro studi” (o da chi di dovere) e cosa veramente passasse loro per la testa nel momento in cui si chiede a un pensionato di andare nei campi sotto il sole estivo a piegare la schiena per raggiungere la bassa terra e portare gli asparagi e i fagioli freschi (e le nettarine!) sulle nostre tavole.
Per comodità, nell’occasione faremo finta di non interrogarci sull’entità del compenso eventualmente riconosciuto, ma lo status quo portato dall’Unione sindacale di base in piazza lo scorso giovedì ha scoperchiato un vaso di pandora invisibile solo ai più distratti, o ai lettori dei media mainstream che occupano lo stivale.
«Nei campi non mancano braccia, ma diritti!», urlava giovedì il corteo dei braccianti in sciopero marciante verso la Prefettura di Foggia per denunciare lo stato di schiavitù e ghettizzazione a cui sono ridotti i lavoratori agricoli nelle campagne del “Belpaese”.
Lo sfruttamento dei braccianti – sia chiaro, italiani e non – è il vero pilastro su cui si fonda buona parte del tanto sbandierato “Made in Italy” nell’ambito del food, dove in realtà pochi giganti multinazionali impongono economie di scala pesantissime per i salari dei lavoratori e delle lavoratrici.
Ma se salta la manodopera a basso prezzo, salta il banco, non solo quello della frutta e verdura, ma proprio quello composto da bassi compensi, bassi prezzi e alta disoccupazione.
Che fare? “Pensionati al posto degli stranieri”, scrive la Coldiretti, e nettarine per tutti, magari per quest’anno un po’ più care.
Che altro deve fare un padrone per farsi odiare?
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