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Più smart working, più produttività e disoccupati

Il Sole24Ore, ieri, ha elogiato lo smartworking compreso nel pubblico con una web conference sul tema con manager e accademici. Secondo l’accademica Ivana Pais è stato un ” lavoro collassato”, un collasso tra sfera privata e sfera lavorativa con stress enormi soprattutto per le donne con figli piccoli.

Il giornale scrive che “è indubbio che lo smart working abbia portato ad un aumento di produttività“, e si pone la questione di come redistribuirla tra imprese e lavoratori.

Il giornale conferma quello che diciamo da sempre, la digitalizzazione deve portare ad una riduzione dell’orario di lavoro, cavallo di battaglia del sindacato Usb. Insomma, persino il giornale di Confindustria ammette che aumenta la produttività e che bisogna trovare una sintesi tra telelavoro e lavoro in sede.

Smentito così clamorosamente Pietro Ichino, anche perché il giornale scrive che tra le “poche ombre” dello smartworking c’è l’overjob.

In pratica si lavora troppo, come le testimonianze di tanti lavoratori durante la pandemia hanno dimostrato. Il che è particolarmente intollerabile in una situazione di disoccupazione strutturale crescente (non fatevi ingannare dai tanti “inattivi” – il 38%, in Italia – classificazione che serve solo a nascondere sotto il tapeto i disoccupati di lungo corso).

Unica soluzione è perciò ridurre l’orario di lavoro per allargare la sfera di occupabilità ai disoccupati. Reddito di cittadinanza, fondi per formazione, ecc, non servono a niente.

La tecnologia permette di lavorare tutti e lavorare meno, come ha dimostrato la pandemia di questi mesi. E’ ora di prenderne atto e agire politicamente di conseguenza, alla faccia degli “imprenditori”.

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