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Porto di Genova: la pace sociale si è rotta?

In un momento in cui una giornata di lavoro costituisce un privilegio”.

Così si conclude il comunicato della Sezione Terminal Operators di Confindustria Genova, in merito alla proclamazione dello sciopero di 24 Ore promosso il 5 marzo dai sindacati di categoria di CGIL, CISL e UIL, cui ha aderito anche USB Porto lanciando però un presidio sotto la sede della Confindustria.

La branca dei terminalisti dell’”associazione datoriale” ha sentito la necessità di richiamare “più volte le organizzazioni sindacali al senso di responsabilità”, ricordando che il lavoro nella Terza Repubblica è ormai un privilegio.

Nel leggere tale dichiarazione prima viene da strabuzzare gli occhi, seguono i conati di vomito ed in ultimo si è spinti a credere che si tratti di un articolo di Lercio – si esclude a prescindere Il Vernacoliere, ma solo perché il comunicato non è scritto in livornese – soprattutto pensando “da quale pulpito viene la predica…”

Operatori economici che hanno visto crescere i loro guadagni grazie alla rendita di posizione su un bene pubblico come il porto, e che si sono ancor più arricchiti grazie alla sua privatizzazione nel corso di questi anni, parlano del lavoro come “privilegio”.

Ma si sa, i padroni nostrani sono solo dei parassiti chiagne e fotte, che con l’ascesa di Draghi al governo si sentono legittimati per rompere i già delicati equilibri di governance del porto e giocare a carte scoperte, palesando la propria volontà di rompere la pace sociale “da destra”, anche comportandosi come elefanti in cristalleria.

Il pretesto per saggiare la capacità di reazione della “comunità portuale” è stata una lettera per così dire minatoria – niente di meno che ai vertici dell’Autorità Portuale, cioè una istituzione pubblica – da parte di 8 terminalisti.

Non per un singolo fatto specifico ma, come dice USB PORTO nel suo comunicato, “per la loro condotta da sette anni a questa parte, in merito ai rapporti contrattuali che legano le 8 imprese e i lavoratori portuali della CULMV, i quali costituiscono il 40% della forza lavoro sulle banchine”.

La “Compagnia” (CULMV) è una cooperativa che ha come prerogativa l’erogazione di mano d’opera in eccesso rispetto a quella di cui dispongono i vari terminalisti che hanno in concessione le banchine del porto e firma contratti commerciali con le aziende che gestiscono i vari terminal e materialmente garantisce la maggior parte delle operazioni di carico-scarico delle navi H24, sette giorni su sette, 365 giorni l’anno.

Il lavoro si svolge “a chiamata” assicurando una professionalità ed una flessibilità che hanno permesso al porto di Genova – il maggiore di Italia per i volumi di merce movimentata ed uno dei maggiori nel Mediterraneo – di reggere le sfide poste dalla filiera logistica nell’epoca della globalizzazione neo-liberista.

La “madre” di tutte le privatizzazioni in Italia è stata appunto quella effettuata nei porti, in parte poi regolamentata dalla legge 84/94 con un sistema di governance di cui ora una parte dei “padroni del vapore” vorrebbe fare carta straccia..

Grazie al lavoro dei Camalli, sono pochi gli attori economici dello shipping che non hanno visto macinare profitti, ottenuti grazie a quel mix di professionalità, aumento della flessibilità ed incremento della produttività, deflazione salariale e tanti – troppi – infortuni.

Rispetto a questo le contropartite sono state ben poche, soprattutto tenendo conto delle varie esternalità negative che ha subito tra l’altro la città in questi anni in termini di inquinamento, tra gli scarichi delle navi e quelli dei Tir, il congestionamento del traffico e progressiva sottrazione degli spazi per fare posto alla merce e ai suo traffici.

Dopotutto il Ponte Morandi è venuto giù per l’incuria nella manutenzione da parte della famiglia Benetton, schiantato dalle merci dal e per il porto.

Certo non si è visto il far-west per cui è stata tristemente famosa la catena logistica a monte e a valle, nelle garanzie complessive di cui gode ancora una parte rilevante della classe operaia portuale, che comunque è stata divisa “artificialmente” e balcanizzata.

E non si tratta di “privilegi”, ma di conquiste costate anni di lotte, ai tempi, soprattutto per opera delle parti allora meno tutelate della forza lavoro portuale, cioè gli avventizi, contro la precarietà dal lavoro a chiamata.

Ai Camalli è stato risparmiato “il destino” dei forzati del mare, ossia di chi lavora navigando, o la condizione semi-schiavistica di chi lavora dentro e per gli hub della logistica, ma non il costante livellamento verso il basso degli standard dentro la precarietà sociale diffusa di una città sempre più impoverita.

Le ragioni di questo equilibrio stanno in un mix di necessità di un patto sociale che assicurasse la pace sociale sulle banchine, rotta – a parte i recenti episodi legati all’arrivo delle “navi della morte” saudite – solo in occasione di infortuni mortali, per i rari scioperi del CCNL o per (molto più raramente) l’assunzione in pianta stabile di alcuni lavoratori.

In questi anni però è sempre rimasta attiva una minoranza attiva che non ha mai fatto venire meno l’attitudine conflittuale, il Collettivo Autonomo Lavoratori Portuali che ora aderisce alla USB, espressa in una scritta in prossimità di un varchi portuali: rebel until the end!, oltre ad alcune idee-forza per ristabilire un piano di garanzie.

Ma ora ai padroni, o almeno ad una parte di essi, questa strana resilienza non va più bene e piombano come falchi sulle garanzie residuali, che in quest’anno si sono ridotte sempre più, svuotando per così dire quel patto sociale, dopo averne minato le basi con una sempre maggiore precarizzazione e la violazione non proprio occasionale di uno dei punti di forza del potere contrattuale dei lavoratori delle banchine: quello di avere il compito esclusivo del carico-scarico delle merci.

L’”auto-produzione”, che in questo caso significa la possibilità di far scaricare una nave dagli stessi marittimi, è espressamente vietata dalle norme, ma viene effettuata spesso “in deroga”; così come è vietato l’uso di manodopera non qualificata esterna alla configurazione prevista dalla legislazione che regola il lavoro portuale.

Ma in questi anni “le multinazionali del mare” che ora vogliono dettare legge sulle banchine hanno attuato una manovra a tenaglia, dal mare (l’auto-produzione) e da terra (con la precarietà che caratterizza l’intera filiera logistica), per cercare di stringere in una morsa i camalli.

L’altro elemento importante da considerare è il processo di automazione, gestito da parte datorial, teso alla riduzione di mano d’opera. Il nuovo terminal di Vado Ligure, per esempio, lanciato nel 2019, è la rappresentazione plastica del connubio italico tra privatizzazione, automazione e finanziamenti pubblici che vanno ai benefici dei privati.

In questo contesto, come riporta sempre il comunicato della USB Porto, “le imprese reclamano 8 milioni di euro. Scrivono di essere state COSTRETTE a firmare gli accordi e a versare i soldi alla CULMV su “imposizione” dei vertici di Palazzo San Giorgio”.

Le parole di questi “falchi” hanno tre obbiettivi principali: attaccare la governance pubblica del porto per piegarla ancora di più agli interessi privati, aggredire il potere contrattuale ed il corpo di garanzie dei lavoratori della CULMV, fomentare la divisione dei lavoratori portuali tra “quelli della compagnia” ed i lavoratori del terminal privati.

La tempistica è stata ben scelta con l’insediamento di Draghi a Palazzo Chigi e l’imminente sblocco dei licenziamenti prossimo venturo, per i quali probabilmente i terminalisti intendono preparare il terreno, riservandosi la possibilità di “sbarazzarsi” di chi, in tutti questi anni, non ha solo cercato di resistere ai colpi, ma ha rilanciato con un progetto a tutto tondo sulla portualità.

Questo avviene sullo sfondo di un ciclo complessivo di ridisegno della logistica che l’USB ha ben chiara, come emerso dall’assemblea dei delegati ed attivisti del dicembre scorso, in un settore dove ha sedimentato forze sufficienti ed una progettualità chiara per essere quell’anello forte per accettare la sfida di parte padronale.

Per questo la prima risposta di venerdì – con una Autorità Portuale pressoché silente, nonostante gli attacchi – tra l’altro con il presidio di fronte a Confindustria, è un passaggio importante per ripristinare quel senso comune maturato tra i facchini ed i driver della logistica ed ora riversato sul “fronte mare”, per cui CHI TOCCA UNO TOCCA TUTTI.

Un tappa importante anche per ribadire le parole d’ordine precise su cui si sta muovendo l’USB Porto: Organico porto, piani d’impresa resi pubblici, lotta all’auto-produzione, accordo d’area per stabilizzare la chiamata alla CULMV in modo che sia uguale in tutto il Porto, modalità unica di assunzione dei contratti a termine nel Porto di Genova per evitare che i contratti a termine diventino pool di manodopera che copre i picchi di lavoro nei vari terminal, sicurezza, stabilizzazione dei lavoratori interinali, estensione a tutti i lavoratori all’interno dell’area portuale del CCNL porti.

Questa borghesia parassitaria ed arraffona è il male peggiore che poteva capitare al nostro Paese, ogni tanto, tocca ricordarglielo e ribadire che il nostro mondo inizierà quando il loro cesserà.

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1 Commento


  • antonio

    …aaa come ci vorrebbero i “portuali” di una volta, quando non erano “succubi” di compromissorie e compromettenti direttive “parasindacalconcertative”!
    Bei tempi quelli; bei tempi.
    Ciò mi porta alla memoria e: mi fa ricordare un vecchio detto del secolo scorso, …”mò che il tempo s’avvicina!!” (pensate a quale “tempo” ci si riferiva allora?)
    Buonasera!

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