I corrieri BRT vincono, ma vengono demansionati, anziché reintegrati in servizio . Affermare la legalità non è compito semplice, tanto meno quando gli ordinamenti offrono rimedi insufficienti.
Linda Carol Brown (1943-2018) ebbe la “fortuna” di trovare un ordinamento tosto: quando le fu negata l’iscrizione alla scuola Sumner di Topeka, Kansas, per il colore della sua pelle, i suoi genitori, assieme ad altre tredici coppie di genitori per conto di venti ragazzi, decisero di fare causa alla scuola ed all’intero sistema educativo, ritenendo la segregazione scolastica razzista, quindi contraria alla legge.
La sentenza Brown vs Board of Education sancì nel 1954 la fine della segregazione razziale nelle scuole USA, perché contraria alla Costituzione. Ma si pose subito un problema “di esecuzione” della sentenza: recatasi presso la scuola per riprendere le lezioni, la folla inferocita, composta ovviamente da bianchi razzisti white thrash impedì fisicamente alla piccola Linda di entrare a scuola.
Lo Stato si avvalse dunque delle forze dell’ordine per allontanare la folla, accompagnare la ragazzina a scuola, ed assicurarsi che le venisse garantita l’educazione che le spettava, in un clima adeguato. Il momento venne immortalato nella nota fotografia patrimonio storico della lotta contro il razzismo.
Che sarebbe successo senza una tale “esecuzione in forma specifica” della sentenza? Quando gli ordinamenti non sono in grado, per una serie di concause, di garantire Giustizia, l’illegalità diventa conveniente, dunque si diffonde.
Nel nostro ordinamento lavoristico, a seguito di una sentenza esecutiva, la parte vittoriosa, se l’altra non adempie spontaneamente, ha il diritto di chiedere l’esecuzione “forzata” della sentenza.
L’esecuzione forzata si divide in due macro-categorie: in forma specifica e per equivalente.
L’esecuzione forzata “in forma specifica” impone al debitore (colui che è stato condannato in sentenza) di adempiere “esattamente” alla prestazione dovuta, senza possibilità di sostituzione con un risarcimento in denaro: si applica quando l’obbligazione è suscettibile di esecuzione diretta da parte dell’autorità giudiziaria, come nel caso della consegna di un bene determinato o della demolizione di un’opera abusiva.
L’esecuzione per equivalente si verifica quando l’adempimento in forma specifica non è possibile o non è praticabile: in questo caso si può ottenere un risarcimento in denaro pari al valore della prestazione non eseguita.
La pronuncia di reintegrazione nel posto di lavoro non è considerata passibile di esecuzione specifica perché implicherebbe un’obbligazione di fare infungibile: cioè un’attività che richiede la volontà e la collaborazione del datore di lavoro.
Costringerlo a reintegrare il lavoratore violerebbe, secondo alcuni, il principio di libertà d’impresa e il diritto di organizzazione del lavoro. Per questo, il legislatore prevede in alternativa sanzioni economiche, come l’indennità risarcitoria, per compensare l’eventuale mancata reintegra in servizio.
Per uno storico, non condiviso da chi scrive, consenso della giurisprudenza e di parte della dottrina (v. ad es. P. Ichino, Il contratto di lavoro) la reintegrazione nel posto di lavoro avvenuta in seguito a sentenza non è un diritto passibile di esecuzione in forma specifica: “L’ordine di reintegrazione del lavoratore illegittimamente licenziato non è suscettibile di esecuzione specifica, in quanto l’esecuzione in forma specifica è possibile per le obbligazioni di fare di natura fungibile, mentre la reintegrazione nel posto di lavoro comporta non soltanto la riammissione del lavoratore nell’azienda (e cioè un comportamento riconducibile ad un semplice “pati”) ma anche un indispensabile ed insostituibile comportamento attivo del datore di lavoro di carattere organizzativo – funzionale, consistente, fra l’altro, nell’impartire al dipendente le opportune direttive, nell’ambito di una relazione di reciproca ed infungibile collaborazione” (cass.9965/12).
In altre parole, se in seguito ad una sentenza di reintegrazione l’azienda non procede spontaneamente con il ripristino in quel posto di lavoro, il lavoratore non può ambire a tornare al suo posto di lavoro, potendo al massimo pretendere un adempimento alternativo, cioè soltanto il pagamento della retribuzione od il risarcimento del danno.
Vi sarebbe, per la verità, una norma – l’art. 614 bis c.p.c. –, la quale prevede la possibilità per il giudice di imporre al debitore un astreinte (sanzione) per ogni giorno di ritardo nell’esecuzione di un obbligo di fare o non fare. Tuttavia, per scelta del legislatore, questa norma non si applica proprio in materia di lavoro, ciò in quanto, come accennato sopra, l’obbligazione di ripristino del rapporto di lavoro è considerata infungibile e attinente alla libertà di impresa e di organizzazione aziendale del datore di lavoro.
Questo limite genera distorsioni ed in un contesto in cui si sovrappongono sempre più soggetti datoriali (committenti, appaltatori, subappaltatori, cedenti e cessionari d’azienda, gruppi d’imprese), favorisce gli abusi. Un esempio tratto da contingenti vicende giudiziarie può aiutare a fare chiarezza.
In concomitanza con l’imponente lavoro della Procura di Milano contro la diffusione dell’illegalità nel mondo degli appalti (con particolare riguardo al settore della logistica), diversi corrieri iscritti all’Unione Sindacale di Base hanno denunciato ciò che consideravano, in linea con la tesi della Procura, uno schema fraudolento.
Con plurime sentenze del Tribunale di Milano la BRT è stata condannata all’assunzione e conseguente risarcimento nei confronti di dodici driver, perché gli appalti di servizio di trasporto all’interno dei quali prestavano attività sono stati ritenuti “non genuini”.
In altre parole, l’ingerenza della stessa BRT in tutte le fasi del lavoro degli autisti per il tramite dell’effettivo esercizio dei tipici poteri datoriali (direttivo, organizzativo, di controllo, sanzionatorio) era talmente pregnante che questa è stata ritenuta datrice di lavoro “effettiva”, con diritto dei lavoratori alla reintegrazione in servizio, dunque alla formalizzazione presso BRT dei rapporti di lavoro.
Tuttavia – e paradossalmente – la nota multinazionale, in fase di attuazione (esecuzione) dei provvedimenti giudiziari, ha subito eccepito di “non avere a disposizione posti di autisti” essendo dunque “costretta” a trasferire i lavoratori per essere impiegati in mansioni diverse, di operai di magazzino.
I lavoratori hanno dunque eccepito che tale condotta costituiva un inadempimento parziale (stavano sì garantendo un lavoro, ma non “il loro” lavoro, quello riconosciuto dal Tribunale) e, a loro volta, hanno eccepito che, se non veniva loro garantito lo svolgimento del proprio lavoro – quello riconosciuto dal Tribunale -, non avrebbero lavorato.
Gli autisti (nella foto) si sono dunque opposti all’illegittimo comportamento aziendale, ritenuto ritorsivo – oltre che in palese violazione delle sentenze del Tribunale – e sono “rimasti a casa”, privi di stipendio, salvo poi essere reinvitati al rientro in azienda, tuttavia senza svolgere alcuna concreta mansione, seduti in una stanza, senza fare alcunché.
Si è dunque reso necessario avviare un secondo contenzioso, in via d’urgenza, nel quale uno dei lavoratori ha evidenziato al Tribunale tale paradossale situazione: aveva ottenuto dal Tribunale il posto di lavoro in BRT come autista – e la sentenza che lo riconosceva è stata nel frattempo confermata in Appello – ma, dopo la sentenza, era stato trasferito a fare altro, presso una filiale distante 150 km.
Così il Tribunale, in composizione collegiale, ha sancito che: “Non può accedersi alle tesi svolte da BRT S.p.A., in quanto, queste ultime legittimerebbero la paradossale situazione attuale in cui versa [il lavoratore]. Quest’ultimo, pur vittorioso nella precedente vicenda giudiziaria tra le parti, si trova privato della professionalità correlata alle mansioni di autista, della connessa ben più consistente retribuzione, con una anzianità decurtata, oltre che inviato in una trasferta illegittima, peraltro sfociata, dal 12.11.2024, in un trasferimento”.
Purtroppo gli attuali “limiti del diritto” non consentono ai lavoratori di rientrare nel proprio posto di lavoro ed, al momento, si trovano privati dalla propria attività e professionalità nonostante la Procura prima, il Tribunale per due volte e la Corte d’Appello poi, abbiano ripetutamente accertato il loro diritto.
I lavoratori si trovano dunque dinnanzi ad una paradossale disgiuntiva: perdere, di fatto, il proprio posto di lavoro, pur conservando il diritto alla retribuzione (seppur considerevolmente decurtata), o piegarsi al ricatto dell’azienda, la quale si è detta pronta ad una soluzione immediata che, dietro firma di dimissioni ed annesso tombale, “consenta” ai lavoratori di continuare la prestazione presso il nuovo “subappaltatore”.
Ad avviso di chi scrive, il comportamento aziendale integra i reati di cui all’art. 388 c.p. “inottemperanza di provvedimento dell’autorità giurisdizionale” ed art. 629 “estorsione” in quanto la mancata assunzione dei lavoratori nella propria mansione è strumentalmente e dolosamente mirata a logorare i lavoratori per estorcere le loro dimissioni: per poter continuare a lavorare presso il nuovo appaltatore, i lavoratori vengono dunque costretti a sanare una situazione illegale.
Siamo certi che non vi sia la possibilità reale di far eseguire “in forma specifica” tali provvedimenti? Visto che l’Italia è una Repubblica fondata sul lavoro, sarebbe sicuramente segno di civiltà garantire l’esecuzione dei provvedimenti dell’autorità giudiziaria, valorizzando così il lavoro quale luogo di accrescimento personale.
Così come si si potrebbero impegnare le forze dell’ordine nel garantire la legalità sui posti di lavoro, anche pretendendo un comportamento attivo da parte del datore di lavoro, come quando a Linda fu garantito di poter rientrare a scuola e ricevere la stessa (proprio la stessa) educazione dei compagni bianchi, anche esigendo un comportamento proattivo all’istituzione scolastica e maestri.
Altrimenti lo Stato consente che ricchissime multinazionali possano “farla franca”, vanificando gli sforzi di alcune delle proprie istituzioni più virtuose e di quei sindacati che abbracciano lotte lodevoli. Ai quali spetta il difficile compito di ricompattare la classe lavoratrice attorno ad un rinnovato spirito di giustizia sociale e solidarietà di classe, organizzando il conflitto, strumento imprescindibile per eliminare le diffuse “trappole” insite nel nostro ordinamento. Tocca inoltre a noi – non solo agli operatori del diritto, ma a tutte/i – stimolare ragionamenti ed organizzare il dissenso affinché possano essere eliminati alcuni dei più eclatanti limiti del diritto.
* Jacobo Sanchez Codoni, è un avvocato giuslavorista dello Studio legale Prolabor, membro del Centro d’iniziativa giuridica Abdelsalam.
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Jacobo Sánchez
Per favore, mettete la foto della ragazzina, è molto più evocativa. Grazie per la diffusione, un caro saluto.