C’è un indicatore certo dellle caratteristiche omicide dello sfruttamento capitalistico, e sono gli infortuni sul lavoro. Per qualche anno, con l’avvitarsi della crisie conomica, i dati relativi erano stati registrati in lieve calo. Meno gente sul lavoro, meno morti e feriti. Tutto normale, ma anche quel calo fisiologico era comunque inferiore – percentualmente – a quello dei posti di lavoro che si erano intanto perduti. Se ne poteva dedurre facilmente che si lavorava comunque in condizioni peggiori, con meno attenzione – tanto da parte delle aziende, quanto da parte di lavoratori molto più ricattati di prima – alle misure di sicurezza.
Del resto i governi (tutti) si erano sforzati di ridurre i controlli e gli ispettori del lavoro, segnalando così alle aziende che ora dovevano preoccuparsi ancor meno di prima.
È bastato che il tasso di occupazione ufficiale smettesse di scendere – molte nuove assunzioni sono in realtà “emersioni dal lavoro nero” oppure passaggi contrattuali dalle varie forme di precariato al nuovo “contratto a tutele crescenti”, incentivato con una decontribuzione che può arrivare fino a 8.000 euro annui per tre anni – perché il numero dei morti ricominciasse a crescere in modo addirittura drammatico: 163 morti in più rispetto al 2014 (+ 16 per cento), cresciuti del 18 per cento gli infortuni mortali in occasione di lavoro. e del 12 per cento quelli in itinere.
I dati, elaborati dal l’Osservatorio Sicurezza sul Lavoro Vega Engineering di Mestre, sulla base di dati INAIL, non lasciano margini alle interpretazioni riduttive. “E’ una vera strage che a fine anno prende forme e contenuti di un massacro. Una tragedia che racconta di 1172 vittime registrate sul lavoro da gennaio a dicembre 2015 e che fa registrare un’inquietante media di 98 infortuni mortali al mese (24 alla settimana e più di tre al giorno). Uno scenario che diventa ancor più drammatico nel confronto con il 2014. Perché l’incremento della mortalità registrato è del 16 per cento (163 morti in più); ed arriva al 18 per cento l’aumento dei decessi nella rilevazione degli incidenti mortali avvenuti in occasione di lavoro (erano 746 nel 2014 e 878 nel 2015). Mentre quelli in itinere sono passati da 263 a 294 (+12 per cento)”.
In totale, 1072 uomini e 100 donne. La differenza, com’è intuibile, dipende dal fatto che i lavori più rischiosi sono ancora appannaggio – “privilegio”, direbbe magari qualche opinionista ben foraggiato – dei maschi.
I dati diaggregati, peraltro, confermano una certa uniformità su base territoriale, aconferma che lo sfruttamento funziona dappertutto in modo sostanzialmente simile. Non c’è insomma difefrenza significativa tra regioni più indstrializzate emeno, tra territori più rispettosi della legalità e qulli a maggiore presenza di attività semi-illegali.
È infatti la Lombardia ad indossare la maglia nera con il più elevato numero di vittime in occasione di lavoro (124 decessi); seguono: la Campania (87), la Toscana (79), il Lazio (76), il Veneto (71); l’Emilia Romagna (69), il Piemonte (66), la Sicilia (62), la Puglia (57). E poi ancora: le Marche (29), l’Abruzzo (28), l’Umbria (22), la Calabria (21), il Trentino Alto Adige e la Liguria (19), il Friuli Venezia Giulia (15), la Sardegna (12), il Molise e la Basilicata (11). Mentre l’indice di rischio più elevato rispetto alla popolazione lavorativa viene registrato in Molise (110,6) contro una media nazionale di 39,2. Seguono Umbria (61,4) e Basilicata (61,1).
La disaggregazione per comparti produttivi assegna ancora una volta all’edilizia la palma d’oro dei lavori killer: 132 vittime, pari al 15 per cento del totale. Seguono le Attività manifatturiere (109 decessi) e il Trasporto e magazzinaggio (91).
Pesante anche la differenza per fasce di età, perché – a dispetto delle regole scritte a tavolino da criminali che non sanno cos’è il lavoro manuale – con lavanzare dell’età aumenta fisiologicamente il rischio di incidenti: più della metà delle vittime aveva un’età compresa tra i 45 e i 64 anni (485 morti).
La provincia in cui si conta il maggior numero di infortuni mortali è il regno storico dei “palazzinari”, Roma con 47 morti; seguono da Milano (35), Napoli (34), Bari (26), Torino (23), Brescia (21), Palermo e Salerno (19), Cuneo e Perugia (17), Verona e Bologna (15).
Le donne che hanno perso la vita nel 2015 in occasione di lavoro sono state 48. Gli stranieri deceduti sul lavoro sono 138, pari al 15,7 per cento del totale, pur rappresentando una percentuale assai inferiore sul piano degli occupati in generale. Significa che a loro sono riservate le mansioni più rischiose, aggravate spesso dalla insufficiente conoscenza della lingua e ovviamente anche delle leggi poste a tutela del lavoratore.
“Appellarsi al buon senso dei datori di lavoro e dei dipendenti, a volte, non è sufficiente per esorcizzare i pericoli in azienda – conclude il presidente dell’Osservatorio, Rossato – e allora diventa sempre più indispensabile invocare controlli più diffusi e severi e, senza alcun dubbio, pene certe e processi più veloci per gli evasori della sicurezza sul lavoro”.
L’esatto contrario di quel che vanno facendo i governi da 25 anni a questa parte.
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