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Primi colpi di maglio al rating degli Stati Uniti

 

L’agenzia di rating Moody’s – per la prima volta nella storia – ha declassato da «stabili» a «negative» le prospettive future della valutazione del debito pubblico degli Stati Uniti, che comunque mantiene ad «AAA», la migliore possibile. Moody’s ha rilevato il rischio che il paese perda questa valutazione se ci sarà «un indebolimento della disciplina di bilancio l’anno prossimo» o se «la congiuntura economica si deteriorerà considerevolmente». Cosa che peraltro sta accadendo.

Un primo atto di sfiducia nella capacità Usa di far fronte ai propri debiti (va sempre ricordato che sono il paese più indebitato del mondo, sia come settore pubblico che privato), ma avanzato con la massima delicatezza possibile, per non uccidere la gallina dalle uova d’oro o terremotare la casa in cui si abita. Per quanto il capitale finanziario “non abbia nazione”, infatti, è importante sottolineare che anche per il “sistema dell’economia virtuale” avere riparo in un’iperpotenza è ben diverso che mantenere uffici nei paradisi fiscali. I secondi sono utilissimi per tutte le operazioni meno ortodosse, ma “l’obbligazione” a pagare i debiti può essere esercitata solo a patto di poter implicitamente contare sulla forza di uno stato senza rivali all’altezza. Un’ingiunzione proveniente dale Cayman o da Santa Lucia, insomma, può esser lasciata sulla scrivania per qualche decennio…

 

Molto diverso il punto di vista di chi non considera gli Stati Uniti “casa propria” o addirittura risponde a interessi che divergono sensibilmente da quelli yankee. L’agenzia di rating cinese Dagong Global Credit ha tagliato il giudizio sugli Usa da ‘A+’ ad ‘A’, con outlook negativo, dopo l’accordo anti-default varato dal Congresso americano per l’aumento del tetto del debito.

La decisione americana di aumentare il tetto del debito, secondo il comunicato della Dagong, non cambierà il fatto che la crescita del debito nazionale degli Stati Uniti ha superato quello della sua economia e delle entrate fiscali, il che porterà al declino della sua capacità di ripagare il debito. La Cina è il maggiore detentore di debito americano, con 1.150 miliardi di dollari alla fine di aprile. La Dagong aveva già abbassato il rating americano da ‘AA’ a ‘A+’ solo lo scorso novembre.

Secondo l’agenzia cinese, infatti, l’aumento del tetto del debito americano mostra che non ci saranno cambiamenti positivi nei fattori che influenzano la capacità di ripagare il debito. La crescita dei debiti negli Stati Uniti secondo Dagong ha finora superato la riduzione del deficit fiscale, in quanto non ci sono norme per sostenere i tagli alle spese federali.

La Dagong stima che gli Usa dovrebbero ridurre di non meno di 4 trilioni di dollari il loro deficit fiscale nei prossimi cinque anni per sostenere la loro credibilità. Il piano di riduzione federale americano di 2.400 miliardi di dollari secondo l’agenzia cinese riflette, da parte del governo, la mancanza di volontà e l’incapacità di tagliare il deficit e ridurre il debito. I tecnici cinesi ritengono che «il declino della capacità di ripagare il debito è irreversibile», bollando come «non costruttiva» la strada trovata dal Congresso americano per sostenere la crescita economica. Al di là del linguaggio tecnico, «irreversibile» è un aggettivo che non ammette equivoci, specie se proviene da un paese famoso per la sua cautela.

La Cina comunica dunque che continuerà a diversificare i suoi investimenti in moneta straniera (riducendo il peso dei dollari in portafoglio) e rafforzare la gestione del rischio per limitare l’impatto della fluttuazione dei mercati globali finanziari sul paese, è scritto nel comunicato della Banca centrale cinese pubblicato sul sito dell’istituto. «La Cina apprezza il progresso americano nella soluzione con il problema del suo debito», scrive Zhou Xiaochun, governatore della banca centrale cinese. «Presteremo molta attenzione al rafforzamento delle leggi a vari livelli». Zhou ha promesso sforzi per mantenere una rapida e costante crescita economica e salvaguardare la stabilità economica e finanziaria del paese. La grande fluttuazione e l’incertezza nel mercato dei bond americani pregiudicherà la stabilità del sistema monetario internazionale e del sistema finanziario, che toccherà così il recupero dell’economia globale.

«La Cina – conclude Zhou – spera che gli Stati Uniti prendano misure responsabili per affrontare correttamente la questione del loro debito».

 

Scheda

Dagong, fondata nel 1994 in Cina con il sostegno delle autorità di Pechino, è la prima agenzia non occidentale che dal 2010, con la presentazione del rapporto sull’affidabilità di 50 Paesi, ha cominciato a cimentarsi con il rischio sovrano, sfidando l’oligopolio mondiale delle tre ‘sorelle’ Standard & Poor’s, Moody’s e Fitch. L’agenzia, considerata finora come un mezzo per sondare gli umori degli piani alti (finanziari) di Pechino, ha acquistato progressivamente peso, sulla scia della crescente influenza cinese in Asia. A luglio, la Cimb, tra i principali istituti di credito malesi, è diventata la prima banca dell’area Asean a potersi fregiare del rating emesso da Dagong. Il numero uno di Cimb, Nazir Razak, aveva espresso, nella cerimonia tenuta a Pechino, l’auspicio e l’opportunità di avere una solida agenzia di rating asiatica, alternativa alle ‘sorelle’ occidentali.

 

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da “il manifesto” del 3 agosto

Marco D’Eramo

Altro che Tea Party: oggi è Barbecue Day

 

Il tetto del debito pubblico Usa è stato infine innalzato di 2.100 miliardi di dollari dai 14.300 attuali. Nella notte tra lunedì e martedì a Washington la Camera dei rappresentanti ha approvato il compromesso con 169 voti contro 161. Ieri pomeriggio il Senato ha anch’esso approvato la legge, con 74 voti contro 26.
Ma questo compromesso lascia l’amaro in bocca a tutti: ai disoccupati che vedono allontanarsi le prospettive di ripresa, a Wall street che chiedeva tagli più severi, alla sinistra del partito democratico che chiedeva di far gravare la stangata anche sui ricchi, e alla destra repubblicana, il Tea Party, che pretendeva una più sanguigna macelleria sociale.
L’amaro in bocca è rimasto anche al presidente Barack Obama, e lo si è visto quando è apparso sull’assolato giardino della Casa bianca, in un washingtoniano mezzogiorno di fuoco, per la morsa di caldo che serra la capitale, per dire che tagliare il deficit da solo non basta e che bisogna rilanciare l’occupazione. Un discorso che sembrava tenuto da un presidente appena eletto, e non da chi ha appena approvato un accordo che consiste solo in tagli alla spesa sociale.
Obama sembra appena sbarcato da Marte quando chiede fondi per la ricerca, per i lavori pubblici, per l’educazione, come ha fatto nel suo discorso di ieri (dopo aver approvato tagli per 2.300 miliardi di dollari nei prossimi tre anni), o quando esige che i ricchi contribuiscano alla riduzione del deficit, subito dopo aver accettato che nel compromesso non si facesse parola di tasse. Ha fatto un bel discorso Obama, ma ci si chiede dove fosse stato nei giorni precedenti. D’altronde lui è specialista in discorsi alati.
Ma le motivazioni dei suoi propositi vanno cercate altrove. Innanzitutto nel voto della Camera dei rappresentanti. Visto più da vicino, il voto mostra che, come al solito, i repubblicani sono stati più disciplinati (174 hanno votato a favore, 66 contro), mentre i democratici si sono spaccati esattamente a metà: 95 hanno votato a favore, 95 contro e 3 si sono astenuti. Cioè: a votare contro il compromesso non è stato solo il progressive caucus, l’ala ufficialmente di sinistra, che conta 75 deputati, ma il malcontento si è propagato anche ai democratici più centristi.
Il presidente Obama deve aver sentito la furia dei liberals e della sinistra. Tanto più che ieri mattina, proprio prima del voto del Senato, aveva ricevuto alla Casa bianca per un incontro privato i leader della confederazione sindacale Afl-Cio, che devono avergliela cantata assai chiara.
Con il suo discorso, il presidente ha dunque voluto rispondere a chi lo critica per essersi lasciato imporre l’agenda dalla maggioranza repubblicana: proprio quando gli Usa soffrono di debolezza nella domanda, di persistente alta disoccupazione, di rischi di ricaduta nella recessione, Obama si è lasciato fagocitare nella paranoia del deficit, nel nuovo mantra di tagliare le spese. In strategia l’atto più importante è la scelta del terreno, ancor più del piano di battaglia. E Obama si è lasciato imporre il terreno dal Tea Party. Ieri ha cercato di recuperare il proprio terreno, quello dei democratici, del loro elettorato e della loro base sociale, e cioè il terreno della crescita economica e dell’occupazione. Ma lo ha fatto a babbo morto.
Per parafrasare un vecchio detto, Obama si ritrova con la botte vuota e la moglie sobria, poiché il compromesso approvato è solo l’antipastino, l’assaggino dell’estenuante tira e molla che l’aspetta nei prossimi 15 mesi che lo separano dalle elezioni: 15 mesi in cui i repubblicani continueranno nel loro pressing sfissiante per ottenere ancora più macelleria sociale. Altro che Tea Party, è Barbecue Day.

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