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La grande ristrutturazione della finanza europea

Ma l’economia internazionale è un ambito “oggettivo”, sottratto alla “politica”, ovvero alla possibilità di “deviare” il corso degli eventi o della ricchezza?
Nemmeno un po’. Nelle decisioni degli “organismi sovranazionali” ogni decisione è sempre politica, per definizione. Bisogna però capire bene una cosa. Non è che si decida “per capriccio” o desueto “interesse nazionale”. L’”internazionalismo capitalistico” ha fatto passi da gigante e conquistato spazio anche in paesi – come Germania e Francia – che pure sono tra i più restii a “cedere sovranità” formale.
Per “decisione politica” intendiamo quindi il fatto che determinate scelte favoriscono alcuni a scapito di altri. Ma questi “uni” e “altri” non sono necessariamente soggetti “politici” (come gli stati nazionali). Possono molto più concretamente essere – anzi: sono – soggetti economici che hanno ancora una “base” prevalente in un certo paese, ma con una diffusione ormai capillare nel globo.
E’ il caso della recente decisione dell’Eba (European banking authority), qui sotto duramente denunciata dal quotidiano di Confindustria, Il Sole 24 Ore. Una denuncia dai toni molto “nazionalistici” e chiaramente “stimolata” dalle due principali anche italiane (Unicredit e IntesaSanPaolo), che non va presa dunque alla lettera ma “ricostruita” a partire dalle informazioni che indubbiamente fornisce.
Siamo di fronte a una crisi globale cui si risponde con una ristrutturazione altrettanto globale del capitalismo. Vecchie posizioni di forza (come quelle europee o statunitensi) vengono meno. Altre “emergono” da una potenza manifatturiera che era stata “furbamente” delocalizzata nei due decenni precedenti. Capitali privati e politiche statuali si intersecano continuamente, spiazzando chi si ostina a leggere gli avvenimenti con gli strumenti dell’”economia pura” o della “geopolitica pura”. Il residuo potere degli stati non è stato affatto accantonato tra gli attrezzi dismessi, ma viene utilizzato alla grande ogni volta che serve. Nelle guerre questo è chiarissimo, e sembra quasi che nulla sia cambiato nel corso dei decenni o dei secoli. Nelle decisioni degli organismi sovranazionali sui temi economici ciò è molto meno evidente, ma sicuramente più gravido di conseguenze.
La decisione dell’Eba, da questo punto di vista, segna uno spartiacque nella “ristrutturazione” della finanza europea. Le banche più forti come capitalizzazione, ma più minate dal cancro dei “titoli tossici”, vengono privilegiate rispetto a quelle magari più “sane” ma meno “sistemiche”. Se qualcuno credeva l “libero mercato”, dovrebbe aprire gli occhi a partire da qui.
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Banche, i veri rischi a Parigi e Berlino
di Morya Longo e Fabio Pavesi

Sono più tossici i titoli che da anni tutti chiamano «tossici», oppure i titoli di Stato che per anni sono stati da tutti considerati a «rischio zero»? L’European banking authority (Eba), imponendo aumenti di capitale per 106 miliardi di euro solo agli istituti più esposti sui titoli di Stato di Italia, Spagna, Grecia, Portogallo e Irlanda, ha dato la sua risposta: sono più pericolosi i bond governativi. Punto a capo. Sta di fatto che, così facendo, l’Eba ha penalizzato banche come quelle italiane o spagnole, ma ha salvato le francesi e le tedesche. Eppure, a ben guardare, in quei Paesi i problemi non mancano: gli istituti sono pieni di titoli tossici, hanno una leva finanziaria più elevata, hanno sempre fatto molto meno credito alle imprese. Il «Sole 24 Ore», numeri alla mano, è in grado di dimostrarlo.
I titoli «tossici» e di Stato.
Per titoli «tossici» si intendono quelle obbligazioni a salsiccia, create impacchettando mutui subprime e titoli strutturati, che da anni non hanno più un mercato. Sono classificati a «livello 3» nei bilanci e pesano in Europa per 337 miliardi. Dove stanno? Soprattutto nelle grandi banche del Nord Europa. Solo il 4% è in Italia. Intesa Sanpaolo e UniCredit, infatti, hanno asset «tossici» in bilancio per soli 3,5 e 10,4 miliardi: si tratta, rispettivamente, dell’8% e del 18% del patrimonio di vigilanza. Percentuali tranquille. Ben diversi, invece, i numeri delle banche tedesche e francesi: Deutsche Bank a fine 2010 aveva 46,6 miliardi di euro di titoli «Livello 3», Commerzbank 5,9 miliardi, Bnp Paribas 32,7 miliardi. Rispetto al patrimonio di vigilanza, Deutsche Bank ha titoli «tossici» per un valore pari al 96%. Ben più del 18% di UniCredit.
Discorso opposto per l’esposizione sui titoli di Stato: è ovvio che le banche dei Paesi in crisi siano piene di bond di casa. Le italiane hanno fatto incetta di BTp italiani (58 miliardi per Intesa e 48 per UniCredit), le spagnole di Bonos locali (53 miliardi il Bbva e 41 il Santander). E questo è il problema: imponendo il rafforzamento parimoniale solo a chi ha tanti titoli di Stato periferici, e non a chi è pieno di titoli «tossici», sono state le italiane e le spagnole ad essere penalizzate. È vero che i titoli di Stato sono rischiosi, ma perché non sono stati considerati tali i tossici?
La leva finanziaria
Stesso discorso per la leva finanziaria, cioè la quantità di attività rispetto al capitale. Ebbene: le banche italiane – calcola l’Abi – hanno la leva più bassa in Europa: gli attivi sono appena 14 volte più grandi del patrimonio netto. Le banche tedesche e francesi, invece, su questa voce hanno l’allarme rosso acceso da anni: la leva è mediamente di 35 in Germania e di 30 in Francia. Insomma: da loro le banche svolgono attività 35 volte maggiori del capitale che hanno, ricorrendo al debito. Per capire la sproporzione: è come se una persona, disponendo di 100mila euro, ottenesse un mega-mutuo per la casa da 3,5 milioni di euro. Impossibile vero? Eppure l’Eba non ne tiene conto.
Il credito alle famiglie
Le banche italiane e spagnole, per contro, sono tradizionalmente più vicine a imprese e famiglie: nel Belpaese (dati Abi) il credito tradizionale rappresenta il 62% degli attivi e in Spagna il 61,4%, contro il 31,7% di Germania e il 30,3% di Francia. Questo significa che in Italia e Spagna le banche hanno sempre fatto più attività bancaria e meno speculazione sui mercati. Questo, ovvio, le espone ai rischi congiunturali: non a caso in Italia i crediti deteriorati – calcolava Mediobanca a fine 2010 – sono molto maggiori che all’estero.
Ma ora si rischia di aggravare la situazione. Se non riusciranno a realizzare gli aumenti di capitale, le banche italiane dovranno per forza ridurre gli attivi: cioè il credito a imprese e famiglie. Mediobanca securities stima un de-leverage (dimagrimento) tra il 17% e il 32% a seconda degli istituti. Questo, di conseguenza, rischia di peggiorare la congiuntura economica e – in estrema conseguenza – di far aumentare i crediti in sofferenza. Il rischio, insomma, è di un avvitamento della crisi bancaria ed economica nei Paesi già deboli.

 

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Perché il credito non è tutto uguale

di Edoardo De Biasi

Cento milioni di crediti industriali concessi all’Eni o a Luxottica sono rischiosi come cento milioni di obbligazioni derivate da un pacco di mutui immobiliari dati a-chissà-chi? Una banca italiana esposta a un rischio-derivati per il 10% del proprio capitale di base ha bisogno di rafforzare i suoi coefficienti patrimoniali come una banca tedesca il cui rischio-strutturati pesa per più del 50% del suo Tier 1 Capital (il cuscinetto di capitale che serve ad assorbire perdite impreviste)?

L’accordo Ue sulla ricapitalizzazione delle banche e soprattutto le stime preliminari dell’Eba sui fabbisogni di nuovi mezzi hanno provocato forti critiche da parte delle comunità bancaria italiana. I portavoce più polemici sono stati Giuseppe Guzzetti, presidente della Fondazione Cariplo e grande azionista di Intesa Sanpaolo, Carlo Fratta Pasini e Alessandro Azzi, i due leader del grande e piccolo credito cooperativo nazionale.

L’oggetto del contendere è noto. Quanto è attendibile quest’ennesimo stress test condotto dalla nuova authority bancaria Ue, presieduta dall’italiano Andrea Enria? È corretto alzare, subito e indiscriminatamente, l’asticella del Core Tier 1 al 9%? Le banche italiane hanno davvero bisogno di circa 15 miliardi, anticipando gli obiettivi di rafforzamento patrimoniale che Basilea 3 graduava nell’arco dell’intero decennio? Dare una risposta definitiva non è facile ma l’impressione è che le decisioni dell’authority Ue siano state troppo influenzate dalle lobby finanziarie anglosassoni. Questa considerazione è confermata da un’analisi dei bilanci 2010 del credito dell’eurozona. Il tendenziale azzardo morale del banchiere che cerca anzitutto l’extraprofitto speculativo sui mercati è stato infatti trattato meglio rispetto all’attività creditizia tradizionale che consiste nel raccogliere (e tutelare) il risparmio delle famiglie e finanziare le imprese produttive, l’occupazione, la crescita. Il sistema bancario tedesco, tanto per fare un esempio, vede pesare per oltre il 60% sul suo Tier 1 Capital il rischio in strumenti finanziari contabilizzati (come i Cdo, gli Abs, pronti contro termine strutturati).

Bene: il rischio comparato del sistema bancario italiano a fine 2010 era meno di un quarto di quello tedesco (16%) e poco più di un terzo di quello medio aggregato francese (45%).

Ma c’è dell’altro. La prevalente esposizione delle banche italiane verso le imprese è stata certificata nell’ultimo anno da un revisore d’eccezione: la Banca d’Italia di Mario Draghi. Decine e decine di ispettori sono stati sguinzagliati per un’operazione di pulizia simultanea dei portafogli “corporate” di tutti le maggiori gruppi del Paese. Su quella base-dati il prossimo presidente della Bce, lo scorso febbraio, ha sollecitato una ricapitalizzazione del sistema che ha visto una risposta estesa e in tempo reale (da Intesa Sanpaolo fino all’operazione annunciata ieri dalla Popolare di Milano). La Germania del 2011 resta invece quella contro la quale l’allora commissario Ue al’Antitrust, Mario Monti, condusse una battaglia di “par condicio di mercato”, chiedendo che venisse tolta la garanzia dello Stato alle Landesbanken e Sparkassen che già folleggiavano in derivati perché si sentivano le spalle coperte.

Chi, però, difende l’operato dell’Eba punta l’indice sull’incognita-Italia. Il sistema bancario italiano, l’unico a non aver accusato fallimenti e a non aver svenato il bilancio pubblico in salvataggi, soffre del rischio sovrano e cioè i titoli di Stato, quelli l’Europa vuole che siano contabilizzati “mark-to-market”. Con due effetti immediati. Il primo è l’ennesima penalizzazione di quelle banche che tengono in portafoglio quote rilevanti di titoli domestici di un Paese sotto pressione speculativa (primo fra tutte l’Italia). Il secondo è che gli istituti non virtuosi di un Paese solido (è il caso della Germania e della Francia) possono perfino registrare plusvalenze utili a compensare perdite speculative.

E proprio qui sorge un nuovo problema fondamentale. Imporre il mark-to-market sui titoli sovrani significa mettere in discussione (in misura implicita, ma non per questo meno insidiosa) la solvibilità del Paese emittente. Una valutazione che non dovrebbe affidata a tecnici ma dovrebbe essere inserita nel quadro politico generale volto a sostenere la difesa dell’euro. Senza dimenticare che questa misura ha conseguenze rivelanti anche nella capitalizzazione delle banche italiane. E fortuna vuole che il depositante italiano, ormai, abbia capito che una “banca che cade in Borsa” non è sinonimo di banca in difficoltà. Come, al contrario, ci insegna il fallimento dell’americana Lehman, l’esplosione dell’olandese Abn Amro. O più recentemente lo spezzatino della franco-belga Dexia.

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