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Il nodo al centro della crisi: la Bce

Doverlo fare con una banca centrale programmata per lottare solo contro l’inflazione è una condanna a morte.

Due articoli nello stesso giorno, su giornali opposti come Il Corsera e il manifesto, pongono lo stesso problema quasi negli stessi termini. La descrizione di quel che sta accadendo sui mercati è preziosa e in qualche misura complementare. Entrambi arrivano alle porte dello studio di Mario Draghi a Francoforte: cambiare lo statuto della Bce non è compito suo, chiaramente (nata da un accordo europeo, ossia da un trattato, va modificata con la stessa procedura), ma proprio lui dovrebbe – a questo punto – segnalare l’inutilità di una banca centrale che si occupa solo di tenere sotto controllo i prezzi mentre questi sono fermi a causa della crisi.

Le “politiche non convenzionali” messe in atto fin qui – come l’acquisto dei titoli di stato dei paesi in difficoltà – sono un accenno in questa direzione. Ma assolutamente insufficiente, e si è visto, a far fronte alle tensioni sui mercati internazionali.

 

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dal Corriere della sera
Così la speculazione riesce a battere la difesa degli Stati
Macché complotto, è colpa nostra

di Mucchetti Massimo

C’è un complotto internazionale ai danni dell’Italia o è il governo uscente a essersi rivelato incapace di difendere l’interesse nazionale nel confronto con i partner europei? Per quanto sia in generale suggestivo e possa pure trovare alimento nelle ipotesi di svendita di Eni, Enel e Finmeccanica, il primo scenario non regge. Basti un solo esempio. L’Eba, la European Banking Authority, sembra accreditare le teorie del complotto: la scelta di contabilizzare al valore corrente i titoli di Stato ha messo in ginocchio le banche italiane e ha favorito le banche tedesche. Ma quell’esercizio tecnico era stato avallato il 26 ottobre dal Consiglio europeo dei capi di Stato e di governo senza che Silvio Berlusconi aprisse bocca; e questo fa pensare a una certa imperizia. Non aveva capito, il premier, come giocavano i diversi interessi nazionali? Non gli era stato spiegato che, con quella mossa, i banchieri italiani non avrebbero più comprato i titoli di Stato perché non avrebbero potuto esporre le loro banche a ulteriori minusvalenze teoriche da coprire con nuovi e veri aumenti di capitale?

La verità è che, con il sostanziale default della Grecia, è venuto meno il principio per cui le obbligazioni degli Stati dell’Eurozona erano prive di rischio. In assenza di interventi che riportino le lancette dell’orologio allo status quo ante, i mercati ormai pretendono un premio al rischio anche sui titoli di Stato: un premio proporzionato alle probabilità di insolvenza del debitore.

Queste probabilità di fallimento vengono calcolate sulla base di due parametri: la crescita del Pil e l’ammontare del debito. Poiché ha un debito altissimo e un’economia stagnante, l’Italia presenta un grado di rischio più elevato di altri: per esempio più elevato della Spagna che ha un’economia reale anche più zoppicante della nostra, ma un debito pubblico assai inferiore.

In un tale contesto, non è sufficiente esibire un saldo primario positivo, ovvero un avanzo tra entrate e uscite prima degli interessi passivi, per invertire la tendenza degli investitori a vendere Italia e a comprare Germania. Chi ha i libri pieni di Btp a valori di carico sempre più elevati rispetto alle quotazioni correnti, tenderà a vendere future sui Btp e a comprarne sui Bund, con ciò accentuando il ciclo: grazie all’apprezzamento dei future sui Bund compenserà la perdita di valore di quelli sui Btp. Salverà il bilancio, ma non gioverà al Paese.

È inutile strologare su quale tasso renderà convenienti i titoli italiani al peggioramento degli scenari. In prima battuta, dovremmo chiederci se siano convenienti per l’emittente o per il sottoscrittore. Ed è chiaro che quanto più lo Stato paga, tanto più l’intera economia si avvita, e se gli alti rendimenti vanno pure all’estero, ci troviamo nella surreale situazione di far uscire ricchezza da un Paese già esausto. Ma in secondo luogo è inutile farsi quella domanda, perché, dopo la fiammata tedesca, i differenziali di crescita tra i Paesi dell’Eurozona e tra questi e il Regno Unito e gli Usa non giustificano gli attuali spread sui tassi. Qui siamo oltre l’economia convenzionale. Ma continuiamo a rispondere, in Europa, con gli strumenti delle nostre convenzioni, ovvero dei Trattati, tutti pensati in altre epoche.

Gli Usa hanno arginato gli effetti distruttivi del crac Lehman e della recessione sui mercati assegnando alla Federal Reserve, con voto del Congresso, il potere di disporre moneta in quantità illimitata per il tempo che serve e con poteri discrezionali d’intervento su tutte le banche, buone e cattive. Il fondo europeo salva Stati non dispone di nessuna di queste tre armi. La Bce modello Bundesbank, neppure. Dunque, la speculazione è sempre in vantaggio.

Riformare gli strumenti comunitari per ridare il rango di risk free ai debiti sovrani è tuttavia un’impresa politica imprevedibile negli esiti e nella durata. Certo, rappresenterebbe un impegno centrale per un governo di unità nazionale che, complotti o non complotti, volesse difendere l’interesse del Paese e, con esso, quello dell’Europa. Come disse Chirac nel 1997, quando ancora la Germania era incerta, senza l’Italia non si dà l’Europa. Ma al tempo stesso il governo non può sfuggire al dovere di incidere sui due parametri che misurano il rischio sovrano: la crescita e il debito.

Posto che nessuno si dice contrario alla crescita, le lettere dell’Europa vanno interpretate laddove dicono e integrate o meno laddove tacciono. Nel primo caso, per esempio, si dovrà decidere se la libertà di licenziare si accompagna a una spesa sociale a tutela del dipendente uguale, maggiore o minore rispetto a oggi e come la si finanzierebbe? Nel secondo caso, si dovrà decidere se la riduzione del debito possa avvenire gradualmente, senza imposte patrimoniali (Alesina e Giavazzi sul Corriere di lunedì 14 novembre) o più rapidamente, anche con la tassazione della ricchezza (Financial Times, Lex Column di ieri). Quali che siano le scelte, dentro l’agenda dettata dall’Europa o anche oltre, varrebbe la pena di associarvi la previsione dei loro effetti sul rapporto tra debito pubblico e Pil negli anni a venire. Giusto per verificare, dati alla mano, il decorso dell’Azienda Italia e l’efficacia della leadership.

 

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da “il manifesto”

Tutta Europa sotto spread
Francesco Piccioni

Titoli italiani: le incertezze sulla riuscita di Monti mettono paura Ma la Francia è ora l’epicentro della speculazione sui bond sovrani La Germania fa da termometro della febbre. Il contagio infetta in primo luogo la Francia, ma subiscono il colpo sia la Spagna che le «virtuose» Austria, Olanda e Finlandia. E Berlusconi pesa ancora «tra i 100 e i 150 punti»
Onestamente parlando, qui Berlusconi c’entra fino a mezzogiorno. È vero, il suo peso negativo sui titoli di stato italiani è valutato tra i 100 e i 150 punti, forse anche 200; e non sono certamente pochi. Ma se lo spread – la differenza tra il rendimento di un titolo decennale rispetto ai Bund tedeschi di pari durata – aumenta contemporaneamente per tutti i titoli dei paesi europei, le ragioni devono essere un po’ più generali. Quello tedesco non aumenta, è vero; ma solo perché è il metro di misura di tutti gli altri, e quindi proprio non può. Una buona notizia per la signora Merkel, che potrà pagare ancora meno interessi sul debito pubblico, ma soprattutto continua ad attirare verso il suo paese capitali in fuga da quelli vicini.
Restiamo tra i nostri problemi. Nonostante la rassicurante presenza di Mario Monti, i titoli italiani hanno perso drammaticamente quota negli ultimi due giorni. Oltre al movimento negativo generale, ha certamente pesato l’incertezza sul fatto che il suo tentativo di formare un governo possa esser libero da condizionamenti rispetto alle «misure» da prendere. Incertezza ingigantita, da domenica sera, da quella frase che i berlusconiani giurano sia stata pronunciata proprio da Lui: «Monti lo possiamo far cadere quando vogliamo». L’ultima cosa che investitori già dubbiosi desideravano sentire.
Le banche europee, come ha confermato il presidente della relativa Federazione, stavano già vendendo a piene mani titoli di stato italiani e «dovrebbero continuare a farlo». Una rivista specializzata anglosassone ha quantificato in 300 miliardi l’ammontare di titoli in liquidazione. Risultato: lo spread italiano è risalito fino a 528 punti, in chiusura (molto sotto, comunque, i 576 toccati per convincere il berluska a uscire da palazzo Chigi). Il rendimento annuale è così risalito sopra della «soglia di non ritorno», ovvero il 7%. A ruota è cresciuto il differenziale dei Bonos spagnoli, a 455, record assoluto da quando il paese è nell’eurozona.
Fin qui saremmo nella normalità. Ma è la Francia a essere entrata di prepotenza tra i paesi a rischio. Lo spread sugli Oat decennali è arrivato a 190 punti. Pochi, direte voi; ma in primavera erano appena 40. Il «contagio» si va insomma diffondendo rapidamente verso Parigi, perché «per finanziare le perdite subite su Spagna e Italia, alcuni investitori di lungo termine» vendono titoli francesi, che hanno ancora un buon prezzo. Ma pesano anche i dubbi sul mantenimento di un rating da «tripla A»; nei giorni scorsi Standard&Poor’s ha diffuso «per errore» ai propri clienti una mail che dava per avvenuto il declassamento; Moody’ si è data tre mesi per elaborare una decisione. Ma tanto basta a far dire che «per i mercati è fatta, la Francia merita al massimo la doppia A».
Pessime notizie anche per il Belgio, con un altissimo debito pubblico e appena uscito da un periodo senza governo, durato oltre un anno. Lo spread dei suoi titoli è salito a 313 punti, e si può anche capire. Ma sono i picchi toccati da Austria (183), Olanda 62), Finlandia (72) a far capire che che la situazione sta andando fuori controllo. Questi infatti sono tutti paesi «virtuosi»; anzi, pretendono di giudicare il comportamento di altri paesi e di avere «garanzie reali» – è il caso della Finlandia verso la Grecia – in caso di prestiti.
Qualcuno si chiederà: ma non doveva esserci un «fondo salvastati»? C’è, si chiama Efsf, ha appena 440 miliardi di dotazione ed era stato deciso che dovesse rastrellare a sua volta soldi sul mercato, emettendo obbligazioni come uno stato sovrano, con copertura però europea. Ma il suo esordio sul mercato non è stato dei più felici. Una settimana fa ha faticato a piazzare bond decennali per 3 miliardi di euro. Si dice che sia stato lo stesso fondo ad acquistare una parte dei propri titoli, per raggiungere la quota prefissata. Il suo spread rispetto ai Bund tedeschi ha toccato i 170 punti. Il «salvatore di Stati» rischia insomma di dover essere presto rimorchiato da qualche nave più robusta. Ma quale? Per Peter Bofinger, uno dei consulenti più vicini ad Angela Merkel ce n’è soltanto una: la Bce, se comincerà finalmente a funzionare come le altre banche centrali. Ovvero come «prestatore di ultima istanza», invece che solo come «guardiano anti-inflazione». In tempi in cui i prezzi calano perché nessuno compra, sembra un ruolo «limitato».

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