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Le pessime notizie sono globali e le borse di tutto il mondo si sono messe alle spalle una nuova giornata in profondo rosso. Delude, in particolare, la borsa di Madrid: la vittoria dei conservatori sembrava dovesse aprire la strada a un forte rialzo delle quotazioni. Non è andata così: anche la «bolsa» madrilena ha messo a segno una nuova giornata da dimenticare. Così come a Piazzaffari: l’indice Mib ha chiuso sprofondando di un altro 4,74%, peggiore performance in Europa. Anche considerando lo stacco di alcune cedole di titoli importanti che hanno influenzato (per uno 0,57%) le quotazioni, la perdite è lo stesso elevatissima. Quanto alle altre borse, Parigi e Francoforte hanno perso oltre il 3%. Sull’altra sponda dell’Atlantico, a un paio di ore dalla chiusura, Dow Jones e Nasdaq perdevano circa il 2,5%.
La prima riguarda l’Ungheria: l’Fmi ha reso noto di aver ricevuto una domanda ufficiale di aiuti finanziari «di precauzione» da parte di Budapest e questa lettera permette quindi al Fondo e all’Ue di avviare le discussioni con l’Ungheria circa una possibile assistenza finanziaria. Altra notizia negativa l’ha comunicata Min Zhu. Il vice direttore generale del Fondo ha spiegato che «tutta l’economia mondiale sta decisamente rallentando», rendendo «troppo ottimistiche» le previsioni dell’Fmi sul tasso di crescita nel 2011. Riferendosi alla crescita europea Zhu ha detto che è «troppo bassa e irregolare». Inoltre ha affermato di sperare in un atterraggio soft per l’economia cinese e di vedere gravi problemi per la produttività nel Sud Europa. Di fronte a questa situazione non brillante, è arrivato un appello di Christine Legarde. La direttrice dell’Fmi ha invitato Washington a «non lasciare cadere l’Europa» perché, ha spiegato, gli interessi economici degli Stati Uniti e dell’Eurozona sono collegati. «Lasciare cadere l’Europa – ha affermato in un’intervista – significa conseguenze rilevanti e negative per molte altre economie, compresa quella degli Stati Uniti d’America». Le affermazioni di Lagarde arrivano dopo che la classe politica Usa si è recentemente mostrata sempre più scettica sull’opportunità di sostenere lo sforzo dell’Fmi nel finanziare gli Stati dell’Eurozona in crisi.
Che la situazione in Europa sia nera, lo conferma uno studio elaborato dal Credit Suisse, pubblicato ieri. Si afferma, tra l’altro, che la fine dell’euro, almeno nella forma conosciuta fino ad ora, sembra essere arrivata. «Questo non significa che la rottura dell’eurozona sia molto probabile – si legge nel rapporto – ma sicuramente significa che devono succedere delle cose straordinarie, e possibilmente entro la metà di gennaio, per impedire la chiusura progressiva di tutti i mercati dei bond dell’eurozona, con la possibilità che in concomitanza con questi eventi si verifichino attacchi speculativi anche alle banche più forti». Non si tratta di paradossi ma della logica «inesorabile» degli investitori: non sanno più esattamente che cosa stiano comprando sul mercato dei bond. «Nel breve periodo, questo non può essere risolto dalla Bce o dai governi in Italia o Spagna. Il problema è che i mercati hanno bisogno di segnali credibili sotto forma di un’unione fiscale e politica ben prima che si possano modificare i trattati».
Secondo la banca, questo nuovo trend significa la fine del modo con cui si è proceduti sino ad ora, a strappi, a favore di misure più drastiche e risolutive di quanto non vorrebbero al momento tanto la Francia quanto la Germania. «Solo allora la Bce a nostro parere sarà disposta a fornire il ponte finanziario necessario per evitare un collasso sistemico e pensiamo che il dibattito sull’unione fiscale entrerà nel vivo già questa settimana quando la Commissione pubblicherà un rapporto sulle tre diverse opzioni per degli Eurobond garantiti vicendevolmente degli stati. Fino a che questo dibattito non giungerà a conclusioni concrete, i mercati continueranno a risentire di forti tensioni: la pressione sui rendimenti dei titoli di stato di Italia e Spagna potrebbero peggiorare molto pur nel momento in cui i nuovi governi varano le riforme e non è da escludere che i rendimenti salgano sopra il 9% per un breve periodo».
Come se non bastassero ai mercati queste notizie, a spargere pessimismo è arrivata anche una nuova previsione della Bundesbank: la banca centrale tedesca ha ridotto le stime di crescita del Pil per il 2012 a 0,5%-1% dal precedente 1,8% e ha avvisato che l’economia del paese potrebbe presto ritrovarsi in una fase di debolezza a causa della crisi del debito europeo e del rallentamento a livello mondiale. In quest’ambito, la Bundesbank prevede che l’economia dovrà essere trainata nei prossimi mesi in misura maggiore dai consumi interni e meno da quelli esterni, visti i segnali di debolezza che si registrano sul fronte delle esportazioni.
L’America si scopre povera e incapace di prendere decisioni. La Cina comincia temere una recessione globale «di lunga durata». I due «primi della classe» dell’economia mondiale guardano alla crisi da punti di vista molto diversi, ma i vincoli comuni sono talmente strettu da non consentire nemmeno alla potenza in ascesa di rallegrarsi – se non ricorrendo a qualche formula della filosofia orientale – del precipitare altrui.
Ed è forse soprattutto questo l’aspetto più preoccupante, tale da far resuscitare – sotto lo guardo partecipe di una Trilateral Commission mai come oggi protagonista attiva della governance globale e preoccupata dalle derive alla Tea Party come dalle proteste popolari – il dibattito sull’esigenza di un «terzo partito» in grado di fare «le cose che bisogna fare», senza le lungaggini del confronto palramentare tra forze politiche che devono conquistarsi il consenso elettorale. Sentite un che di familiare? Per forza: «è la globalizzazione, bellezza».
Ma intanto 100 milioni di americani – un terzo della popolazione – è diventata «quasi povera» o peggio. Venti milioni sopravvivono sotto la soglia dei 5.600 dollari l’anno (poco più di 4.000 euro). Degli altri, il 28% ha un lavoro fisso, la casa e l’automobile. Ma non ce la fa a tenere il passo. L’Ufficio del censimento ha diramato i dati ieri, per chi si concepisce come il centro del mondo sono uno shock. A Washington, per esempio, dato l’alto costo della vita, 40.000 dollari l’anno bastano appena per le spese essenziali.
Ma questa situazioe non semmbra scuotere né il senso di responsabilità dei politici, né – tantomeno – quello dei manager delle imprese più grandi, abbiano avuto successo o no. È di ieri, per esempio, la notizia che Maurice «Hank» Greenberg, ex amministratore delegato del colosso assicurativo Aig (salvato con 110 miliardi di dollari pubblici dal fallimento, nel 2008-9) ha fatto causa al governo statunitense chiedendo 25 miliardi per «danni». A suo avviso, infatti, il salvataggio dell’impresa che aveva portato al dissesto era «incostituzionale». Forse ledeva la «libertà d’impresa»…
Di fronte a questa America senza baricentro chiaro, la Cina studia le tendenze dell’economia e prevede una «lunga recessione globale». Il vice premier Wang Qishan ha rotto con il tradizionale linguaggio diplomatico per affermare che le prospettive sono «estremamente gravi», Quella crisi che qui in Occidente si manifesta come «crescita zero», nei paesi ormai «emersi» assume le fattezze dell’inflazione. Qui, infatti, i salari sono fermi da oltre un decennio, ma laggù devono correre con il correre degli investimenti, della produzione crescente, delle carenze di manodopera specializzata (quasi un paradosso, visto da dove son partiti).
Qui pesa l’immenso debito accumulato grazie alle formule fantasiose – matematica pura, senza rapporto con il «sottostante» di valore – della finanza creativa, con «effetto leva» fantastico (una droga quando si cresce, un tumore quando c’è crisi). Lì si cerca di non perdere di vista il surplus investito in titoli di stato e finanziari occidentali.
Una differenza di vedute che lo stesso Wang Qishan ha sintetizzato a suo modo: «una ripresa non equilibrata sarebbe meglio di una recessione equilibrata». La traduzione, non difficile, è: «lasciateci crescere in pace, non chiedeteci di far apprezzare troppo la nostra moneta, non è utile neanche per voi che noi vi seguiamo nella crisi».
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