Non è andata così. E oggi ne stiamo pagando il prezzo, Che però viene rigettato addosso alle popolazioni, cominciando da quelle dei paesi più deboli. Ma ora che la marea sta lambendo anche la struttura della Francia, aumentano le tensioni e i tentativi di ristrutturare in corsa una macchina che non tiene la strada. La posta in gioco: fare della Bce una vera banca centrale (“prestatore di ultima istanza”, cioè abitata a “stampare moneta” se serve). Oppure restare legati a un interesse miope dei “virtuosi” (Germania, Olanda, Finlandia) che fa affondare tutti. Loro compresi, ovviamente.
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da “il manifesto”
La crescita la si può intendere quantitativa – replicando l’attuale modello di sviluppo – o qualitativa, ovvero con un nuovo modello di sviluppo.
CONTINUA|PAGINA 7 Da escludere che si possa rimanere fermi tentando unicamente di tamponare le falle dei conti pubblici con manovre restrittive già abbondantemente varate senza attenzione per gli effetti distributivi. O, ancora peggio, soffocando le condizioni di lavoro perché è questo che «impone» la globalizzazione. Un alibi: l’Europa è troppo grande e importante per essere «condizionata». Il sospetto, anzi la certezza, è che si auto-condizioni non solo per motivi ideologici, ma anche per la pochezza delle istituzioni comuni a fronte delle quali sta una finanza sempre più aggressiva, ma al tempo stesso impunita. Anzi protetta.
Fa veramente pena assistere al dibattito che si sta svolgendo accentuato in questi giorni sugli euro bond. Emerge in tutta la drammaticità il risorgere degli egoismi nazionali. Non solo quelli della Germania (che non li vuole) ma anche quelli della Francia che si batte per averli pur di evitare la trappola di una riduzione del rating e un aumento degli interessi sul debito pubblico. Gli ultimi dati macroeconomici, oltre alle previsioni, confermano: l’Europa sta scivolando in una nuova recessione nell’indifferenza delle autorità politiche che, forse, la ritengono una catarsi, una cerimonia di purificazione necessaria, rigeneratrice. Ma c’è un problema: questa crisi, esplosa nel 2008 con conseguenze devastanti nel 2009, non sembra voler terminare. Certo, lo scorso anno il Pil ha registrato un rimbalzo e anche quest’anno ci sarà un po’ di crescita. Ma lo scenario è pessimo e sembra che nessuno sappia cosa fare: si procede tappando un buco alla volta, cercando di aggiustare i conti pubblici.
Ieri la Merkel ha detto no a una Bce che stampi moneta emettendo gli euro bond. Ci sono paesi, come ha scritto un commentatore recentemente, che stampano moneta con il ciclostile. Cioè una quantità infinita. Senza entrare in discussioni teoriche, è sufficiente ricordare che stampare moneta è negativo quando un sistema economico attraversa una fase di piena utilizzazione dei «fattori produttivi». Le virgolette non sono casuali, visto che chi si dice di sinistra sostiene (o dovrebbe) che esiste un solo fattore produttivo: il lavoro. E vale la pena ricordare che negli anni scorsi hanno stampato moneta non gli stati, ma – autonomamente e senza controlli – il sistema finanziario, provocando così quel crollo che ancora viviamo.
Stampare moneta in un qualsiasi forma da parte delle autorità centrali è, invece, utile e necessario quando i sistemi economici presentano una fase di scarsa utilizzazione dei «fattori produttivi», come in questo momento. E la disoccupazione crescente ne è la prova più evidente. Solo una spinta vigorosa alla domanda può consentire di arrestare il declino. Sia ben chiaro: la domanda in questa fase deve provenire soprattutto dagli investimenti sociali e dai consumi collettivi, con una svolta cioè nella politica economica a livello europea. Ma la speranza che avvenga è quasi nulla e non può essere superMario a fare il miracolo.
L’altra notizia che ha terremotato i mercati ieri è arrivata da Eurostat. Nel mese di settembre gli ordinativi all’industria, nell’eurozona, sono calati del 6,4% rispetto al mese precedente. Significa che nei prossimi mesi gli stabilimenti avranno meno lavoro, aggravando una tendenza recessiva ormai manifesta. L’Italia registra la peggiore prestazione in assoluto, con un calo che arriva al 9,2%. Anche togliendo dal computo i settori a più alta volatilità (navale, aerospaziale, ferroviario, che lavorano su tempi lunghi) la situazione migliora di poco: -4,3 nell’eurozona, -2,3 dell’Unione dei 27 paesi.
Importante lo squilibrio che si è venuto a creare. Gli ordini crollano nei paesi più importanti (Italia, Germania, Francia, Spagna), mentre aumentano in quelli dell’Est (Lettonia, Polonia, Repubblica Ceca). A segnalare, certo, una delocalizzazione ormai radicale che ha ridisegnato la «divisione continentale del lavoro» e delle produzioni, ma anche l’incapacità di «compensare» la caduta nei paesi più grandi.
Soprattutto, questi dati mostrano che la gerarchia industriale imposta negli ultimi anni dalla Germania – che ha trasformato in «contoterzisti» molti produttori dei paesi confinanti o quasi, comincia ora a incontrare seri limiti. Le possibilità di esportare verso la Cina grandi macchinari (centrali a carbone, intere linee produttive, ecc) si scontra in questo momento con il rallentamento della crescita del celeste Impero, causata proprio… dalla riduzione delle importazioni europee e statunitensi. La riduzione del potere d’acquisto del lavoro dipendente – che accomuna sia gli yankee che gli europei – ha insomma aiutato per un po’ di anni i singoli imprenditori a fare profitti più facilmente; ma ad un certo punto questa ridotta capacità di consumo si ritorce contro il funzionamento del sistema globale.
Proprio ieri l’Hong Kong and Shanghai banking corporation (Hsbc) ha reso noto che l’attività dell’industria cinese si è ulteriormente contratta in novembre. Il Purchasing manager index (Pmi) chiuderà novembre a livello 48, tre punti sotto i 51 fatti registrare in ottobre; ma sotto anche la soglia dei 50, che separa tradizionalmente le fasi espansive da quelle recessive.
Questo insieme di dati, complici anche le tensioni permanenti sui titoli di stato europei, hanno provocato sua una discesa seria dei valori azionari che ulteriori terremoti sul mercato dei titoli pubblici. Le borse europee hanno chiuso tutte molto male (Milano -2,59%, Francoforte -1,44, Parigi -1,68), evidenziando che ora è anche l’economia reale a preoccupare (oltre alle banche, sotto stress per la scorpacciata di titoli di stato e obbligate ad aumentare il capitale posto a garanzia degli impieghi).
Ma non è andata meglio per lo spread, nonostante i problemi mostrati dai titoli-termometro: i Bund tedeschi. Il differenziale tra i Btp decennali italiani e gli omologhi germanici è salito di nuovo sopra i 500 punti base, portando il rendimento al di là della pericolosissima «soglia di non ritorno» fissata a cavallo del 7%. La Bce è ricorsa ancora una volta a massicci acquisti di Btp e Bonos spagnoli, per impedire una caduta ben più grave. In chiusura la quotazione era «scesa», si fa per dire, a 497, mentre quello spagnolo si fermava a 468.
Ma altrettanto è avvenuto con i titoli a scadenza breve – i Btp a due anni, considerati meno rischiosi – a dimostrazione che il «rischio paese» resta alto nonostante Mario Monti (uomo a tutto tondo «dei mercati») sia ormai in sella. Qui lo spread è arrivato a un’inconcepibile 700 punti, mai visti in dodici anni di vita della moneta unica. Se c’è una governance europea, dobbiamo dire, i mercati non se ne sono accorti.
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