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Unità europea disoccupata

Unità europea disoccupata

Calano gli «inattivi», ma è un effetto statistico dell’invecchiamento della popolazione

Francesco Piccioni
La recessione morde l’Europa e l’Italia, quasi allo stesso modo. E l’occupazione è l’indicatore che coglie meglio la sofferenza sociale. I dati mensili diffusi ieri da Eurostat confermano un’accelerazione delle tendenze in atto da qualche mese, anche se è confrontando i numeri a distanza di un anno che si coglie meglio la dimensione delle perdite.
Partiamo dall’Europa. In tasso di disoccupazione nella zona euro ha raggiunto il 10,7% a gennaio; rispetto a un anno prima c’è un incremento sostanzioso: lo 0,7%. Nei 27 paesi dell’Unione, invece, il tasso è leggermente più basso (10,1), ma l’aumento è praticamente uguale (+0,6).
Ma le percentuali dicono poco. Le persone senza lavoro, nella Ue-27, sono oltre i 23 milioni. Rispetto a un mese prima sono aumentate di 191mila unità, mente se si guarda allo stesso mese del 2011 l’incremento diventa sensibile: un milione e mezzo. Il dato più rilevante è comunque la collocazione geografica. Quasi tutto l’aumento è infatti concentrato nei paesi che adottano la moneta unica (1.221.000). L’ufficio statistico europeo non lo dice, ma sembra abbastanza evidente che le delocalizzazioni verso est siano una delle cause principali di questa caduta occupazionale.
La verifica è indiretta, ma precisa. I paesi che hanno ridotto in modo più consistente sia la percentuale che il numero di disoccupati sono le repubbliche baltiche ex sovietiche, che pure mantengono le posizioni più arretrate in Europa. In Lettonia, per esempio, il tasso di disoccupazione è sceso in un anno da un pesantissimo 18,2% a un comunque duro 14,7. Poco peggio hanno fatto Lituania (dal 17,5 al 14,3) ed Estonia (dal 13,9 all’11,7). È indicativo che il miglioramento più forte sia avvenuto lì dove le condizioni di partenza erano peggiori e quindi maggiori le facilitazioni fiscali e salariali per gli investitori esteri.
Ma questo gioco sembra funzionare solo dove non c’è l’euro. In Spagna, infatti, dove pure si partiva dal livello di disoccupazione più alto (20,6%), c’è stato invece un peggioramento drastico (23,3). Discorso simile per Cipro, che però risente anche del dramma greco (qui la disoccupazione è letteralmente esplosa dal 14,1 al 19,9%). Visti da questa angolazione, insomma, i benefici dell’euro non sembrano davvero tali. Altra cosa, naturalmente, è se si guarda per esempio ai prezzi delle merci scambiate in dollari, come i prodotti petroliferi. A livello giovanile, invece, la situazione resta molto difficile ovunque. Per la fascia sotto i 25 anni ci sono 5,5 milioni di senza lavoro nella «grande Europa», 3,3 milioni dei quali nella zona euro. I paradisi per i lavoratori «new entry» restano quelli del Nord opulento (Germania, Austria, Olanda), mentre l’inferno è tutto dei Piigs, più la Slovacchia.
L’Italia, dicevamo, si muove intorno alla media continentale. Sia per quanto riguarda il tasso di disoccupazione (arrivato al 9,2%, un punto più dell’anno prima), che per il numero delle persone in cerca di lavoro (286mila in più). L’occupazione giovanile invece ci colloca decisamente nella fascia più bassa del continente, con il 31,1%; in leggerissimo aumento rispetto al 31 di soltanto un mese prima.
Due dati sembrano in apparente contraddizione con questa tendenza negativa, ma si tratta di effetti statistici facilmente comprensibili. Il numero assoluto degli occupati è aumentato (40.000 persone in un anno), ma questo significa che molte più persone si sono messe a cercare un lavoro senza però trovarlo.
Il secondo riguarda i cosiddetti «inattivi» nella fascia di popolazione in età da lavoro (tra i 15 e i 64 anni). Sono infatti diminuiti dello 0,4% in un mese e addirittura dello 0,8 in un anno (63mila unità). Come si può intuire, si tratta dell’effetto «invecchiamento della popolazione»: a gennaio sono infatti andate in pensione – nonostante l’ultima «riforma» di Fornero e Monti abbia innalzato drasticamente l’età del ritiro – molte più persone di quante non se ne siano affacciate, almeno potenzialmente, sul «mercato del lavoro».

da “il manifesto”

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