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La tempesta è sempre qui e pretende sacrifici umani

Un’affermazione che ha ovviamente delle conseguenze dirette – immediate e di lungo periodo – sulle politiche economiche e sociali di tutti gli stati. Se il “benessere” (in inglese welfare) è un costo da abbattere, che ne sarà delle quote di popolazione che sopravvivono solo grazie a questo? Che crepino appena finita l’età lavorativa, è la risposta del capitale…

Per chi fa ancora fatica a crederci, ecco qui due articoli da il manifesto di oggi.

 

La folle corsa dell’eurozona

Tommaso De Berlanga
Dopo l’euforia, il crollo. Questi mercati sono proprio incorregibili: più fai (manovre sanguinose sui deficit pubblici di tre quarti d’Europa) e meno apprezzano. Ma una spiegazione c’è, anche se non piacerà affatto ai cultori del liberismo in stile anglosassone.

 Intanto, le notizie. La peggiore giornata di borsa da molto tempo a questa parte era attesa, ma non in questa misura. Piazza Affari ha perso il 5%, il doppio esatto di Francoforte, che pure poteva vantare dati economici assai migliori. Mentre intorno a quella cifra hanno ballato sia Parigi che Londra, con Wall Street che – al momento di scrivere – perdeva l’1,5. Segno che questa nuova ventata di crisi non dipende tanto, o solo, dalle politiche interne di questo o quel paese, ma da un sistema globale che è arrivato di nuovo al redde rationem tra dinamiche astratte della finanza e quantità dure dell’economia reale. Il settore che più ha trascinato al ribasso le piazze europee sono state non a caso le banche: Unicredit e IntesaSanPaolo hanno lasciato sul terreno circa l’8%, appena meno la Popolare di Milano. Ma anche titoli industriali importanti come StMicroelectronics (-8,19%), Fiat (-6,41) e Tenaris (-5,54) hanno sentito per intero la botta.

 Non è andata affatto meglio per i titoli di stato, e non solo per quelli italiani. Lo spread tra i Btp decennali e gli equivalenti Bund tedeschi ha superato di nuovo i 400 punti, quota lasciata in gennaio. Peggio hanno fatto i Bonos spagnoli (ora a 430), mentre anche per gli Oat francesi c’è stata una risalita, seppure a soli 125 punti. Dov’è finita la «fiducia ricreata» nella stabilità del debito pubblico europeo? In realtà sembra piuttosto essere finito l’effetto «salvataggio» garantito da due successive emissioni di credito all’1% da parte della Bce, che in soli tre mesi ha «iniettato» sui mercati oltre 1.000 miliardi di euro.

 Cosa sta succedendo, dunque? I mitici «mercati» stanno prendendo atto che l’economia globale va male, con differenze nazionali anche sensibili ma nell’insieme in direzione negativa. Lunedì sera, a borse europee chiuse, il presidente della Federal Reserve statunitense – Ben Bernanke – ha spiegato che «la crisi non è finita», pur sapendo (o no?) di dare un dispiacere al pubblicitario ottimismo cinese di Mario Monti. E non poteva far altro, nel giorno in cui i dati sull’occupazione negli Usa mostravano un crescita pari alla metà delle previsioni.

 La Cina, che pure ha fatto registrare in marzo una crescita delle esportazioni (+8,9%) pari alla metà di quella esistente 12 mesi prima, ha segnato comunque un surplus commerciale. Segno che quel paese importa anche meno di prima, potendo contare sulle proprie forze per tutte le merci base (che anzi esporta in tutto il mondo) e limitando l’import a energia, macchinari e beni di lusso. Della prima non può fare a meno, ma delle ultime…

 Le poche notizie positive vengono dalla Germania, dove le imprese medio-grandi prevedono di fare nuove assunzioni per 80.000 unità a breve termine, soprattutto ingegneri richiamati dal nuovo boom della produzione automobilistica (qualcosa che dovrebbe insegnare molto a Marchionne & co). Ma è il contraltare speculare della recessione europea, registrata anche dall’Ocse e dal Fondo monetario internazionale, accentuato da una moneta unica che a questo punto favorisce il più forte.

 Proprio il Fmi ha pubblicato un nuovo Outlook che punta il dito sul peso che l’indebitamento delle famiglie (e quindi il blocco dei consumi privati) sulle economie dei paesi avanzati. Famiglie schiacciate da debiti che si sono moltiplicati in pochi anni e che le hanno lasciate indifese davanti allo scoppio di diverse «bolle» (tra cui, soprattutto, quella immobiliare).
Un quadro drammatico, al di là delle cautele di linguaggio, anche perché «non esistono più beni che possono essere considerati davvero al sicuro». Tranne il vecchio oro, raddoppiato di prezzo in pochi mesi e da allora mai più ridisceso. Basti pensare che ieri la banca centrale svizzera ha collocato titoli a sei mesi con un rendimento negativo; ovvero, c’è chi, pur di tenere i soldi «tranquilli» è disposto a perderci qualcosa.

 Ma c’è un passaggio del documento che getta una luce sinistra sulle politiche di taglio alla spesa sociale in atto in tutta Europa: «i rischi connessi a un aumento dell’aspettativa di vita sono molto alti: se entro il 2050 la vita media dovesse aumentare di tre anni più delle stime attuali, aumenterebbero del 50% i giá elevati costi» dei sistemi di welfare. Quasi un suggerimento ai governi perché passino da politiche liberiste ad altre più tragiche, da Smith a Malthus. Tradotto: dobbiamo morire prima.

 
Governi tossici
Galapagos
«Le famiglie in molte economie – si legge nel World Economic Outlook pubblicato ieri dal Fondo monetario internazionale – stanno lottando con il peso del debito accumulato prima della Grande recessione». Attenzione: la «Grande recessione» non è quella del ’29, ma quella iniziata nel 2008-2009.
Spiega l’Fmi: «Durante i cinque anni precedenti il 2007, il rapporto tra debito e reddito delle famiglie è cresciuto a massimi storici sia nei Paesi avanzati che in alcune economie emergenti». In particolare, nelle economie avanzate, nei cinque anni prima del 2007, il rapporto debito/reddito delle famiglie è cresciuto di una media del 39% al 138%. E’ una affermazione importante, quella del Fondo monetario, che finalmente fa un po’ di luce sui reali motivi della crisi attuale anche se l’interpretazione rimane un po’ monca.
Il punto centrale, infatti, sarebbe capire perché è cresciuto prima del 2007 l’indebitamento delle famiglie. L’Fmi non lo dice, ma ci sono montagne di dati e statistiche. La causa centrale è che il 2007 è l’anno terminale di un periodo (circa 20 anni) che ha visto peggiorare in quasi tutto il mondo (è uno degli effetti nefasti della globalizzazione) la distribuzione del reddito. In particolare la quota di «prodotto sociale» destinato al lavoro dipendente.
La caduta del reddito per centinaia di milioni di persone non è stata accompagnata da una politica redistributiva attuata dalla mano pubblica che anzi sta progressivamente riducendo il proprio intervento nei settori del welfare. CONTINUA | PAGINA 4
Risultato: le famiglie si sono progressivamente indebitate per poter mantenere i livelli di consumo, ma anche per potersi costruire una pensione privata, pagare le spese sanitarie, avere un tetto dove ripararsi, pagare l’istruzione universitaria di eccellenza (cioè privata) per i figli.
Poi è esplosa la bolla immobiliare comunemente definita crisi dei mutui subprime. La crisi finanziaria è stata violenta, ma non è stata la causa reale della crisi che invece ha radici nei rapporti di produzione e di distribuzione del reddito, nello squilibrio tradizionale tra sovraproduzione e sottoconsumo.
Per cercare di tamponare la «Grande recessione» sono state riproposte ricette fasulle curando (molto bene, come non era stato fatto nel ’29) gli aspetti finanziari, ma non le cause strutturali. Il risultato è stato un diluvio di denaro a basso costo sul sistema creditizio e l’abbandono al loro destino di decine di milioni di persone.
In altre parole: la crisi finanziaria è stata tamponata ma per l’economia reale e la vita dei cittadini nulla è stato fatto. Anzi, peggio: moltissimi paesi per correggere i conti pubblici erosi dalla crisi e dagli aiuti al sistema finanziario hanno varato manovre correttive – depressive – per cercare di tamponare gli enormi deficit pubblici che si sono formati e che sono state fatte pagare anche da chi non aveva quasi nulla.
Questa è la situazione attuale e non deve destare nessuna sorpresa quello che sta accadendo da parecchi giorni sui mercati finanziari. Ieri per le borse è stata una nuova giornata tragica: a Piazzaffari l’indice principale (il Mib) ha perso quasi il 5% e le quotazioni sono tornate agli stessi livelli del novembre 2011. Ma non va meglio su tutte le altre piazze mondiali, che dopo aver toccato (fino a una quindicina di giorni fa) dei massimi storici o quanto meno dei massimi di periodo, ora hanno ripiegato sui livelli di inizio anno. Il tutto accompagnato – in alcuni paesi – da una risalita dei rendimenti sui titoli del debito pubblico che hanno fatto tornare lo spread tra Btp a Bund attorno ai 400 punti e ancora più in alto lo spread tra Bonos spagnoli e Bund.
La spiegazione di quanto sta accadendo il manifesto l’aveva anticipata meno di 20 giorni fa e partiva da un presupposto semplice: le piazze finanziarie erano state drogate dalla politica monetaria della Fed e della Bce e gli indici non anticipavano affatto quelle che erano le prospettive reali dell’economia mondiale.
In particolare l’iniezione di liquidità attuata dalla Bce (oltre 1.000 miliardi di euro per tre anni all’1% di interesse) aveva provocato una ripresa di interesse delle banche per i titoli pubblici che sono stati acquistati in grande quantità con il risultato di far scendere i rendimenti e gli spread. La caduta dei tassi di interesse aveva reso di nuovo interessanti gli investimenti in borsa e non a caso gli indici salivano ogni giorno. Ma non poteva durare e non è durata.
Oggi si è tornati alla situazione di partenza fatta di prospettive pessime per l’economia mondiale (anche per la Cina) e di licenziamenti di massa (vedi perfino la giapponese Sony) che non aiutano la ripresa dei consumi, ma gettano sempre più in depressione il sistema produttivo. Per il quale – senza la ricerca di alternative – si prospetta una nuova fase di depressione o di stagnazione che allontana i tempi della ripresa, gettando altri milioni di persone nell’inferno della povertà e del disagio sociale.

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