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Ue. «Salviamo le banche, non gli Stati»

Quando anche Wall Street apre in calo netto – subito l’1% in meno (diventeranno 2 nel corso della giornata – si capisce che i santi hanno smesso di proteggere i mercati internazionali.
Il «la» era stato dato proprio dall’America, la notte scorsa. Una piccola ma influente agenzia di rating – la Egan Jones – che funziona spesso da pesce pilota per le «tre sorelle» più grandi (Fitch, S&P, Moody’s) ha declassato il debito pubblico della Spagna a «B». Contemporaneamente si era diffusa la voce che il governo spagnolo avesse deciso di rifinanziare l’istituto Bankia, da pochi giorni di fatto nazionalizzato, con 19 miliardi di prestito da parte della Bce. Ma che Francoforte avesse negato tale possibilità.
Tanto bastava per confermare Madrid al centro del mirino di tutta la speculazione internazionale, nonostante innumerevoli attestazioni di stima per «il coraggio» e la «severità» delle immancabili «riforme strutturali» (pensioni, mercato del lavoro, ricapitalizzazione delle banche) messe in campo dal governo Rajoy.
Ma la mazzata più dura alla fiducia nella «politica europea» veniva data – con incredibile effetto boomerang – dal presidente della Commissione Ue, José Barroso. Tra le raccomandazioni rituali del rapporto che andava presentando ne ha infilata una che chiarisce anche ai profani il senso economico delle scelte fatte fin qui dalle istituzioni internazionali: «il fondo salva-stati (Esm) dovrebbe ricapitalizzare direttamente le banche».
Non c’è bisogno di traduzione. Lo strumento creato tra mille difficoltà e resistenze (sugli esborsi da effettuare per i paesi più forti) per sanare gli squilibri di alcuni stati dell’eurozona – senza peraltro esserci ancora riuscito, vedi il caso della Grecia – dovrebbe servire soltanto a portare ancora altre somme colossali nelle casse di banche private.
Perché? Secondo la stessa Commissione così si potrebbe «spezzare il legame tra banche e debito pubblico». Qui una spiegazione è necessaria. Negli ultimi mesi, attraverso due maxi-operazioni di prestito a interesse base (1%), la Bce ha dato alle banche circa 1.000 miliardi, con il tacito accordo che queste ultime avrebbero acquistato titoli di stato (in quel momento ansimanti). Ovviamente guadagnandoci col differenziale tra gli interessi. Il corto circuito era però perfetto: le banche erano esplose nel 2008, rendendo palese la crisi globale; gli stati (anche quelli virtuosi come l’Irlanda) si erano indebitati per riempirle di soldi freschi e salvarle; il debito degli stati veniva infine acquistato dalle banche stesse.
La «pensata» della Commissione è fantozziana: diamo direttamente alle banche i soldi che dovremmo dare agli stati, così ci faranno qualcosa d’altro. Insomma: che le popolazioni (interne agli stati) friggano pure nella crisi, ma le banche volino là dove le porta il margin call.
La Commissione sa bene che in questi giorni le «attività finanziarie» (quelle che fanno sia le banche che altri grandi investitori) stanno «ritirandosi entro i confini nazionali», vendendo tutto ciò che non è strettamente conosciuto o controllabile. Il rischio nemmeno tanto nascosto è la «disintegrazione finanziaria» dell’eurozona. E, con una certa logica, si raccomanda «un’unione bancaria», con supervisione finanziaria integrata, fino a «uno schema unico di garanzia sui depositi». Ma l’uso del «salva-stati» come «salva-banche» è in radicale contraddizione con questo obiettivo: perché è ormai quasi dappertutto molto difficile convincere «la gente» che le banche vengano prima delle persone.
Il caos gestionale europeo è tale che Obama ha inviato qui il suo sottosegretario per gli Affari internazionali, Lael Brainard, col compito di far capire cosa ci si aspetta dall’altro lato dell’Atlantico. E tanto per farsi capire subito, la signora Lael ha detto di «riconoscere in pieno i sacrifici fatti dai greci fin qui». L’esatto opposto delle parole in libertà di Christine Lagarde (Fmi) e di vari «ortodossi» teutonici.
Comunque poco per spargere ottimismo. L’euro è sceso ai minimi sul dollaro (sotto 1,24), per la gioia degli esportatori tedeschi. Il petrolio è sceso sotto gli 89 dollari, e così molte altre materie prime. La recessione sarà lunga, inutile dunque «ordinare» energia e merci-base.

 

da “il manifesto”

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