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La Spagna “salvata” gasa le borse e si prepara al peggio

Se ne sta accorgendo anche un numero crescente di analisti mainstream, che proprio non possono evitare di sottolineare che si stia facendo – con la Spagna – quel che era stato fatto già nel 2008: si danno soldi pubblici alle banche. Bisogna infatti sapere che i 100 miliardi dati dal fondo Esm alla Spagna perché li giri ai suoi istituti sull’orlo del fallimento non vengono dal cielo o dalla Bce, ma dagli altri Stati europei, Italia compresa.

Una pesante batosta per l’”orgoglio” dei conservatori iberici è arrivata dalla sostanziale imposizione degli “aiuti”. Rajoy aveva decine di volte dichiarato che non ce n’era bisogno e non liavrebbe mai chiesti. Ma anche Madrid è diventata la quarta capitale europea ad essere commissariata dalla troika attraverso il meccanismo del “prestito d’emergenza”.

Quindi si aumenta il debito degli Stati per fermare l’incendio di istituti privati ritenuti – a torto, a quanto pare – indispensabili per “il buon funzionamento” del sistema. Quindi gli Stati dovranno aumentare le tasse oppure la quantità di tagli alla spesa “normale” (sociale, amministrativa, persino militare in qualche caso) pur di garantire che una massa indescrivibile di denaro continui ad arrivare in casse private evidentemente con qualche voragine sotto il fondo.

Il secondo punto evidenziato anche dagli articoli che seguono – tutti presi da giornali assolutamente allineati col governo Monti – è che questo passaggio di denaro non serve a niente se non cambia il modo di far funzionare il sistema o “la direzione di marcia”. E’ come pagare di tasca propria un’altra partita di eroina (“dose” sarebbe in effetti un po’ poco, viste le cifre in ballo) per un tossico all’ultimo stadio. Se la spara in vena, sembra stare meglio per qualche ora o giorno, e poi si ricomincia da capo.

Il terzo punto, non meno importante, riguarda l’informazione su questi temi. Il fatto che i governi e gli organi sovranazionali stiano adottando “note di linguaggio” assolutamente simili a quelle usate dagli eserciti in guerra dovrebbe far riflettere anche i refrattari. È un avvelenamento sistematico programmato delle sorgenti da cui le popolazioni traggono gli elementi base per orientarsi nella tempesta. Diciamolo altrimenti: non c’è nulla di “oggettivo” in quello che governi e organismi internazionali stanno facendo nel gestire la crisi. Ogni decisione è una scelta tra diverse opzioni; non ce n’è mai una sola. Scelgono a chi far pagare la crisi, questo è il punto. Le possibili “alternative”, che esistono e sono numerose, hanno un solo difetto: farebbero pagare – in misura variabile tra le varie “alternative” – anche qualcun altro.

Le conseguenze sulle borse, stamattina.

Il via libera del G7 al piano europeo di salvataggio da 100 milioni per le banche spagnole ed il balzo segnato dalle esportazioni cinesi a maggio (+15,3% a fronte di previsioni ferme a +10%) spingono al rialzo i principali listini che però a metà mattina si allontanano dai massimi di giornata. Madrid, che è arrivata a guadagnare quasi il 6%, sale del 2,7%.

Ma lo spread tra Btp e Bund a 10 anni torna sopra i 430 punti base (435,8) con il tasso Btp in rialzo al 5,73%. Il differenziale tra i decennali spagnoli e tedeschi si amplia oltre i 470 punti (473) con il tasso dei Bonos che risale al 6,11%.

Bilancio: dopo un primo moment di frenesia speculativa (dovuta all’ennesima prova che i problemi dei privati verranno risolti col denaro pubblico, finché ce n’è), gli operatori di borsa sono per un verso passati all’incasso dei guadagni ottenuti in poco più di due ore, ddall’altro hanno dovuto cominciare a interrogarsi su quanto pericolosa sia la situazione a questo punto.

 

 

Aiuti alle banche, un circolo vizioso

Silvano Andriani

La decisione di fornire al governo spagnolo fino a cento miliardi di euro per salvare le banche eliminerà probabilmente il rischio di un collasso immediato di sistemi bancari europei, ma non è certo una novità. Anche nei casi della Grecia, dell’Irlanda e del Portogallo le erogazioni ai governi di quei Paesi, fatte dal fondo cosiddetto salva Stati, era servito a salvare le banche. Anche questa volta ha vinto la Germania e i fondi non saranno dati direttamente alle banche spagnole, ma allo Stato affinchè li giri alle banche. La novità, si dice, è che questa volta non verrebbe imposta come condizione l’accettazione di una pesante politica di austerità, ma quella politica il governo spagnolo l’ha già adottata sin dai tempi di Zapatero.
Il risultato sarà che vedremo il debito pubblico spagnolo, che prima della crisi era il più basso d’Europa, impennarsi ancora e quasi raggiungere il livello di quello italiano e che il governo spagnolo, nel mettere i quattrini dei contribuenti europei dentro le banche, dovrà decidere quale governance dare ad esse, e se intende ancora una volta salvare insieme alle banche anche i responsabili dei loro fallimenti. Si discute anche dell’unificazione dei sistemi bancari europei, che vuol dire regole comuni, un unico controllore, un meccanismo comune per la gestione di eventuali default di banche. Sarebbero positive novità ma appaiono decisioni lontane. Il sostegno alle banche spagnole, invece, se anche frenerà la fuga dei risparmiatori dalle banche spagnole, appare l’ennesimo intervento all’ultimo minuto per evitare di cadere nel baratro, ma senza cambiare la direzione di marcia.

Nonostante il gran parlare della necessità di crescita economica, le uniche decisioni pesanti riguardano ancora la finanza. La crisi col suo movimento circolare ci ha riportati al punto di partenza: siamo partiti dal salvataggio delle banche e lì stiamo tornando. E bisognerebbe chiedersi perché. E bisognerebbe capire come mai le banche europee, quelle inglesi, tedesche e francesi in testa, sono le più indebitate al mondo e hanno accumulato una quantità di asset, dai quali provengono i rischi di perdite, mediamente pari a tre volte il Pil europeo. L’enorme squilibrio finanziario generatosi nell’area euro è intrecciato alla crescita delle divergenze fra Paesi forti e quelli deboli. Fino a che tale divergenza non sarà aggredita lo squilibrio finanziario tenderà a rafforzarsi. Ancora una volta, comunque le banche vengono salvate con il denaro dei contribuenti.

Appare, inoltre, chiaro il paradosso per cui Stati costretti con politiche di austerità a ridurre il debito pubblico tagliando pensioni, investimenti, spese per l’istruzione, vengono simultaneamente indotti ad aumentare quel debito per salvare le banche. E i titoli che emetteranno per il maggior debito contratto per i salvataggi saranno in buona misura acquistati dalle stesse banche aumentando il rischio complessivo.

Arriviamo così al cuore del problema che si racchiude in questo fatto: la crisi ha avuto origine da un livello record del debito totale – debito privato e pubblico – nei Paesi avanzati; a cinque anni dall’inizio della crisi il livello del debito totale non è diminuito, in Europa è aumentato. Nessuna meraviglia che tornino le crisi finanziarie. Concludendo la presentazione di un rapporto speciale sul debito, nel 2010, The Economist sosteneva che «per il mondo sviluppato, il modello finanziato dal debito ha raggiunto il suo limite, ciascun governo dovrà trovare la sua via per ridurne il peso. La battaglia tra creditori e debitori può essere lo scontro determinante della prossima generazione».

Siamo nel bel mezzo di tale scontro e poiché creditori e debitori non sono solo singole persone, ma anche Stati, soprattutto fra Stati. Le politiche seguite finora sono andate a vantaggio dei creditori. Nessuno dei modi con i quali in passato si è ridotto il livello dell’indebitamento è stato accettato. Non i default guidati delle banche; non la ristrutturazione dei crediti (quello del debito greco è stato accettato obtorto collo e tardivamente); non l’aumento del tasso di inflazione come proponeva anche il Fmi.

L’esperienza storica, attestata da recenti ricerche, ci dice che da situazioni di eccesso di indebitamento generalizzate si esce con una svalutazione dei debiti. Qui non si tratta solo di un problema pur importante di equità. Si tratta di vedere anche quale è la strada che favorisce il rilancio dello sviluppo. Onorare fino in fondo il debito, onorarlo magari con i quattrini di chi quel debito non aveva contratto, significa mantenere sul sistema economico un peso impossibile e colpire le nuove generazioni due volte: facendogli pagare il debito e menomando il loro futuro.


Da l’Unità

 

Rajoy ringrazia (a metà) l’Europa

«Il credito alle banche non è un soccorso a Madrid. Ha vinto l’euro»

Andrea Nicastro

MADRID

In gergo militare si chiamano «note di linguaggio». Servono ai portavoce per chiamare i massacri «incidenti collaterali» e le imboscate «contatti con forze ostili». Ieri gli spin doctor della Moncloa si sono lambiccati sulle parole da suggerire al primo ministro Mariano Rajoy per la sua improvvisa conferenza stampa del mattino. Tutto il mondo chiama «salvataggio» («rescate» in spagnolo) i 100 miliardi di aiuti al sistema finanziario spagnolo che l’Ue ha messo a disposizione di Madrid. Rajoy, però, non poteva smentire se stesso. Per settimane ha escluso che, non solo il Paese, ma anche il suo sistema finanziario avessero bisogno di salvataggi e quando il neo presidente francese François Hollande aveva suggerito il rifinanziamento delle banche d’oltre Pirenei, Rajoy l’aveva tacitato: «Evidentemente Hollande non conosce la nostra situazione».

Ieri mattina, le note di linguaggio di Rajoy escludevano l’uso dell’espressione «salvataggio» o anche «aiuto». Il premier, costretto a mostrarsi da un popolarissimo hashtag su Twitter («marianocobarde», Mariano fifone), ha scelto «linea di credito europea senza condizioni». L’obiettivo era di volgere l’intera vicenda in positivo. Così i cento miliardi di aumento del debito pubblico, sono diventati «la credibilità del progetto europeo». La testa del governatore della Banca centrale concessa ai tecnici europei (oggi l’insediamento del nuovo) è diventata «la solidità del nostro sistema finanziario». I 10 punti di Pil impegnati per salvare le banche trasformati nella vittoria dell’«Unione europea» e nel «futuro dell’euro». Quando poi era proprio impossibile non parlare del mega finanziamento Ue, Rajoy l’ha chiamato «la cosa di ieri». Perché? «Non ho intenzione di perdere tempo in dispute nominalistiche».

In fondo ha ragione, dal momento che, sono parole sue, «la situazione economica è ancora molto delicata» e «certe volte ci chiedete cose che non possiamo dire». La colpa, ovviamente, è del governo precedente, quello del socialista Zapatero, «ma grazie all’azione del mio esecutivo abbiamo ottenuto una linea di credito senza condizioni difficile da conseguire». Nessuna pressione

dai soci europei per accettare «la cosa di ieri, al contrario siamo noi ad aver insistito».

«Il governo sa perfettamente dove deve andare e ringrazia gli spagnoli che lo capiscono». Quindi l’impegno più rivolto a chi lo ascoltava dall’estero che in patria: «Non spenderemo soldi che non abbiamo in modo da non aumentare il debito e riformeremo il sistema economico per ottenere più flessibilità e più credito».

Una giornalista ha chiesto perché, in un momento tanto delicato, Rajoy abbia mantenuto il viaggio alla partita Spagna-Italia del Campionato europeo. «La Spagna è campione del mondo — ha risposto —, è giusto che il premier assista al match inaugurale. Certo, se la situazione non fosse risolta non sarei partito».

Insomma, tutto finito, tutto a posto. Molti analisti non la pensano così e ritengono che lo spread spagnolo potrebbe impennarsi com’è successo ad altri Paesi dopo il salvataggio europeo e il congelamento della loro economia in politiche di austerità che hanno aggravato la recessione invece di combatterla. Non importa, il messaggio che Rajoy voleva mandare era di serafica fiducia.

Secondo il settimanale tedesco Der Spiegel in edicola oggi, il presidente della Commissione europea José Manuel Barroso, quello dell’Unione europea, Herman Van Rompuy, il capo dell’Eurogruppo, Jean-Claude Juncker, e il presidente della Banca centrale europea, Mario Draghi, stanno preparando un piano per bloccare ogni ulteriore indebitamento dei Paesi membri. Usando le parole di Rajoy, gli europei potrebbero «spendere solo i soldi che hanno».

A queste condizioni Berlino sarebbe finalmente disposta ad appoggiare l’emissione di eurobond che implicherebbe la nascita di un super ministro delle Finanze Ue che sorvegli e tolga sovranità a quelli nazionali. Madrid deve rifinanziare 63 miliardi di debito statale e regionale in scadenza quest’anno. Super ministro europeo ed eurobond verrebbero molto utili.


dal Corriere della sera

 

 

Salvataggi, austerity e crescita . I nodi da sciogliere per la nuova strategia europea

Tregua per la Spagna, ma Grecia e recessione fanno paura

FEDERICO RAMPINI

Il maxi-salvataggio annunciato per le banche spagnole oggi affronta il primo test dei mercati. 100 miliardi basteranno a ridare stabilità e fiducia all’eurozona E’ davvero finita l’emergenza, o il più grande salvataggio della storia europea si rivelerà un altro “cerotto”, che non cura le debolezze di fondo? I dubbi che più assillano i cittadini riguardano l’economia reale. Finora gli aiuti alle banche sono stati catturati dalla finanza, non si sono tradotti in crescita e occupazione. E chi paga il conto del salvataggio non è solo la Germania, ci siamo anche noi.

Con l’accordo di sabato è finita l’emergenza nell’eurozona?

No, anzitutto c’è l’altra crisi aperta, in Grecia: il 17 si vota e se vincesse la sinistra di Syriza ha già annunciato che straccerà gli accordi sull’austerity. Questo comporterebbe lo stop automatico degli aiuti erogati ad Atene dal Fondo monetario internazionale. Lo scenario “Grexit” come viene ormai definito sui mercati, cioè l’uscita della Grecia dall’euro, aprirebbe le scommesse degli investitori su chi sarà il prossimo paese candidato ad abbandonare l’unione monetaria.

La Grecia è piccola, era la Spagna il “pezzo grosso” a far paura, ora almeno Madrid è al sicuro?

Neanche questo si può dare per scontato. Ammesso che vada liscio il salvataggio delle banche, il governo Rajoy è alle prese con i debiti delle sue regioni (16 miliardi); e deve raccogliere 47 miliardi per rifinanziarsi solo nella seconda metà dell’anno. E’ essenziale che il salvataggio delle banche spagnole ripristini subito la fiducia dei mercati, in modo che i tassi sui titoli del Tesoro spagnoli scendano sotto il pericoloso 6%. Quella che era iniziata come una crisi “solo bancaria” (all’inizio il debito dello Stato spagnolo era tra i più bassi d’Europa) può ancora trasformarsi in un default sovrano. C’è un paradosso malefico, racchiuso proprio nel meccanismo del salvataggio bancario. Gli aiuti europei — che si spera siano “solo” 40 miliardi, ma possono arrivare fino a 100 — non saranno versati direttamente nei bilanci delle banche; finiranno invece nelle casse dello Stato spagnolo che a sua volta li userà per salvare dal crac gli istituti di credito. In questo modo però l’afflusso dei fondi europei andrà iscritto alla voce “debito” per lo Stato spagnolo e la sua situazione finanziaria sarà più precaria, ai sensi del patto fiscale europeo. Senza contare la recessione che continuerà a deprimere le entrate fiscali di Madrid.

Tutti quei miliardi versati alle banche daranno ossigeno all’economia reale, cioè lavoratori e imprese?

E’ improbabile: lo insegnano le esperienze passate. Dagli Stati Uniti all’Irlanda, gli ultimi salvataggi bancari non si sono trasformati in benefici sostanziali per l’economia reale. Scongiurare le bancarotte nel sistema creditizio è indispensabile: occorre evitare il panico, gli assalti agli sportelli, nonché la “gelata” di tutto il credito (fu lo scenario che paralizzò il mondo intero nelle settimane successive al crac della Lehman, 13 settembre 2008). Ma una volta salvate, le banche non restituiscono il favore. La sfiducia continua a regnare: si prestano pochi capitali fra di loro, tantomeno sono generose con le imprese e i consumatori. Le banche spagnole con ogni probabilità reinvestiranno i loro nuovi capitali in titoli del Tesoro. E nel caso che il valore di quei bond scenda ancora — se è la Spagna stessa a rischiare il default (vedi sopra) — ancora una volta dovrà intervenire la Bce con i suoi prestiti d’emergenza. Gli studi di Kenneth Rogoff dimostrano che una crisi originata da crac bancari è sempre più lunga da riassorbire rispetto a una normale recessione: dura in media sette anni.

Visto che gli stati salvano le banche, perché non possono obbligarle d’autorità a riversare quegli aiuti sotto forma di prestiti alle imprese, o in mutui-casa?

E’ una formula pericolosa: si ritornerebbe al “credito amministrato” di cui l’Italia conobbe i fasti e i danni fino agli anni Ottanta: quando le banche prestavano i soldi dietro “suggerimento” dei politici. Un esempio più recente dei danni del dirigismo bancario lo si vede in Cina. E’ appena cominciata a scoppiare la bolla speculativa immobiliare cinese, creata da un “credito facile” che obbediva a direttive politiche. Gli istituti di credito cinesi hanno anche finanziato le loro “cattedrali nel deserto”: infrastrutture inutili, doppioni di impianti industriali, progetti-trofeo voluti dai politici locali per erogare favori clientelari e accrescere il proprio prestigio nella nomenclatura. Tra il mercato e la politica, per le banche la prima soluzione resta la migliore. Ma un mercato efficiente è fatto di regole e negli ultimi anni la finanza ha goduto di libertà eccessive. Una Tobin Tax sulle transazioni finanziarie, più severi limiti agli investimenti speculativi, sono i prezzi che vanno imposti al settore creditizio in cambio degli aiuti.

Da dove vengono i 100 miliardi offerti alle banche spagnole? Dalle tasche di Angela Merkel?

Vengono da tutti i contribuenti dell’Eurozona, noi inclusi, in proporzione al contributo che ciascun paese membro si è impegnato a versare nello European Stability Mechanism (Esm). Sui 500 miliardi di euro dell’Esm, la Germa- nia contribuisce per il 27%, la Francia con il 20%, l’Italia è il terzo finanziatore col 18%. I fondi salva-Stato non sono illimitati e gli ultimi interventi li hanno già “assottigliati” parecchio. Il precedente fondo Efsf, creato nel 2010 con 440 miliardi iniziali, ne ha ormai solo 250 dopo i salvataggi di Irlanda e Portogallo. Nell’ipotesi — apocalittica, e per ora puramente teorica — di un salvataggio dell’Italia, si stima che ci vorrebbe dal doppio al triplo di quanto offerto alla Spagna.

Che cosa serve realmente per arrestare la recessione e creare lavoro?

Nell’eurozona i margini di manovra sono quasi nulli, almeno finché prevale la rigidissima applicazione del “patto fiscale” anti-deficit. Qualcosa però si sta muovendo: dopo l’elezione di François Hollande, e le ripetute pressioni di Barack Obama, il governo tedesco comincia a parlare di strategia di crescita. Nei prossimi mesi si tornerà a discutere della Golden Rule di Mario Monti: per escludere dal calcolo dei deficit pubblici gli investimenti pubblici, per esempio nelle infrastrutture. Hollande è deciso a varare misure per l’occupazione come l’assunzione di 60.000 insegnanti. Il padronato tedesco sta dando un esempio positivo con le ultime tornate contrattuali: aumenti superiori al 4% annuo per gli operai metalmeccanici, una pre-condizione perché ripartano i consumi. In America, dove la crescita è rallentata per effetto della crisi dell’eurozona, Obama ha 450 miliardi di programmi di spesa pubblica bloccati dai veti della destra al Congresso: è costretto a sperare che intervenga di nuovo la Federal Reserve con massicce iniezioni di moneta. La Cina ha ridotto di un quarto di punto i tassi d’interesse e potrebbe varare nuovi programmi di investimenti pubblici.

L’UNIONE EUROPEA ESCE RAFFORZATA DALLA DECISIONE DI SABATO SULLA SPAGNA?

Dipenderà dal seguito. Fin qui l’eurozona continua a dare l’impressione di rincorrere e tamponare i nuovi focolai di crisi, anziché prevenirli. Sulle banche spagnole si doveva intervenire almeno due anni fa, e i governi di Madrid hanno la principale responsabilità per questo ritardo. Questi interventi tardivi, fatti con l’acqua alla gola, finiscono per dare ragione ai mercati che “scommettono in anticipo” sulla prossima crisi, e spesso ci azzeccano. E’ però una costante della storia, che l’Europa rafforza la sua unione solo quando è sotto la pressione delle emergenze. Lo teorizzarono perfino i “padri storici” da Jean Monnet a Jacques Delors.

Quali i prossimi passi verso un’eurozona più coesa e solida?

Primo: visto che le banche in difficoltà non sono salvabili da un singolo Stato (vedi Spagna), allora devono essere sottoposte a una vigilanza europea. Purtroppo questa non esiste, tant’è che inizialmente farà da supplente il Fmi con sede a Washington. Costruire una vera task force che ispezioni regolarmente le banche (compito che spetterà all’Eba, European Banking Authority) significherà sfidare clientelismi politici e lottizzazioni: dalle Casse di risparmio iberiche alle Fondazioni bancarie italiane.

Il secondo passo dovrà essere verso l’unione fiscale. Poiché la Germania è il maggiore contribuente europeo, e la sua economia è il pilastro di solidità a cui le altre cercano di agganciarsi nelle crisi di sfiducia, è giusto che Berlino abbia più voce in capitolo sul gettito fiscale greco, spagnolo e italiano. Questo comporterà l’avvicinarsi, sia pure molto gradualmente, verso un sistema fiscale all’americana: dove le entrate fiscali vengono raccolte in parte dagli Stati, in parte dall’Internal Revenue Service federale con sede a Washington.

Lo stesso vale per le politiche di bilancio sul fronte della spesa. Una vera unione fiscale ha degli ammortizzatori automatici in caso di crisi: negli Stati Uniti le pensioni o le spese militari fanno capo al bilancio centrale (federale), e questo aiuta gli Stati colpiti dalle crisi: se il Michigan è travolto da una caduta della produzione automobilistica, le pensioni continuano ad arrivare da Washington. Al tempo stesso, una unione fiscale vorrà dire che l’elettore tedesco avrà qualche diritto di decidere come vengono spesi i “suoi” soldi anche in Calabria o in Val d’Aosta. E’ chiaro che unione bancaria e fiscale vanno legittimate alla base attraverso una unione politica, perché siano rispettate le regole della democrazia. Alla Germania va dato atto di essere sempre stata tra le nazioni più federaliste, mentre Francia e Inghilterra hanno bloccato i precedenti piani per l’unione politica.


Da Repubblica

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