È il risultato della «cura Monti», accoppiata a una lunga crisi globale che per il momento ha stabilito il suo epicentro in Europa. I dati sull’occupazione diffusi ieri mattina dall’Istat mettono a nudo molte verità nascoste, che in televisone difficilmente vedrete (se non alle 3 di notte).
Dietro l’aspetto asettico dei numeri stanno infatti miliioni di persone aggredite dalla peggiore malattia che possa capitale di regime capitalistico: non avere un lavoro, quindi (a meno di non darsi a rischiose attività extralegali) non avere neppure un reddito.
I dati sono relativi a settembre e come sempre segnalano movimenti minimi «su base congiunturale» (rispetto al mese precedente), mentre diventano più evidenti «su base tendenziale» (rispetto allo stesso mese dell’anno precedente). Se una novità va trovata è che questa volta anche i movimenti di breve periodo si rivelano molto violenti, a dimostrazione di una crisi che sta accelerando i suoi effetti negativi. Per esempio, il numero assoluto dei disoccupati è aumentato del 2,3% in un solo mese; 62.000 unità che hanno fatto arrivare il totale al record di 2 milioni e 774 mila.
L’altro dato che balza agli occhi è che questo aumento drammatico riguarda soprattutto la componente maschile, ovvero quella che veniva un tempo considerata la parte «forte» dell’occupazione. La crescita della disoccupazione maschile – dice l’istituto di statistica – «su base annua è pari al 24,9% (554mila unità)». Il baratro dentro cui vanno scomparendo vite, nuclei familiari, competenze, «pezzi di mercato» (un lavoratore può acquistare merci, entro certi limiti; un disoccupato molte meno) si sta insomma rapidamente allargando.
Il tasso di disoccupazione generale, di conseguenza, non può che salire: è ormai al 10,8%, ben due punti percentuali in più rispetto a dodici mesi prima. Guardando il dato simmetrico (il tasso di occupazione) si vede che, nonostante la perdita di lavoro stia interessando soprattutto gli uomi, persiste una differenza di genere nell’ordine del 20%. L’occupazione maschile scende infatti al 66,4%, mentre quella femminile – pur crescendo di un impercettibile 0,1 – resta comunque al 47,4%.
Ma la sciagura più grande resta la disoccupazione giovanile. Nella fascia d’età lavorativa (tra i 15 e i 24 anni, per convenzione) ci sono 608mila ragazzi in cerca di occupazione, il 10,1% del totale generazionale. Mentre il tasso di disoccupazione qui viaggia su cifre impensabili, oltre il 35%; con un aumento dell’1,3 in un solo mese e del 4,7 in un anno.
Sul punto è necessario soffermarsi un attimo. Tutte le misure di politica economica e di «riforma del mercato del lavoro», prese prima dal governo Berlusconi, poi da quello «tecnico», sono state sempre giustificate con la necessità di «promuovere l’occupazione giovanile». In pratica, si diceva – e si faceva scrivere agli opinionisti un tanto al chilo – che era indispensabile togliere molte «protezioni» al lavoro a tempo indeterminato per poterne dare qualcuna in più (mai successo, peraltro) a quello precario. Il quale non è più una prerogativa solo giovanile, anche se resta quasi l’unica forma di occupazione possibile per gli under 30.
Il risultato sta sotto i nostri occhi: anche grazie allo straordinario allungamento dell’età pensionabile, i giovani non trovano lavoro e «i maturi» lo vanno perdendo. Anche a voler usare il metro del «reddito familiare» – come se i giovani avessero perso il diritto a farsi una vita indiependente dalla famiglia – ne consegue che il potere d’acquisto si va riducendo.
Una conferma indiretta è venuta dalle relazioni durante la Giornata mondiale del risparmio, con protagonisti come il governatore della Banca d’Italia, Ignazio Visco, e il ministro dell’economia Vittorio Grilli: le famiglie cercano di resistere intaccando i risparmi accumulati nel tempo. Anche l’ultima «virtù italiaca – il risparmio, appunto – se ne va a ramengo.
da “il manifesto”
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