Il vertici – se non prendono decisioni vincolanti rappresentate da nuovi trattati – servono ai partecipanti per annusarsi, farsi capire meglio, lanciare avvertimenti… tranquillizzando contemporaneamente opinione pubblica e media sul fatto che “tutto procede per il meglio”.
Non è così e lo si capisce dalle dichiarazioni finali giunte al termine dei lavori del G20, per la prima volta riunito in Russia. Al centro delle discussioni c’è stata l’ormai evidente avvisaglia di “guerra delle monete”, tra dollaro, euro, e yen, cone statunitensi e giappponesi fin qui impegnato a svalutare la propria divisa per aumentare la competitività delle proprie esportazioni. L’Europa, invece, senza una chiara fisionomia politica istitutzionale (un governo federale, insomma) e con una Banca centrale totalmente indipendente ma sotto l’influenza decisiva della Bundesbank, mantine per ora la politica di austerità e rigore – anche sul piano monetario – che sta facendo salire il valore dell’euro rispetto agli altri due competitor principali, ma anche rispetto al yuan cinese (ancora agganciato al dollaro, ancorché progressivamente sempre più rivalutato).
Una situazione pericolosa, perché rischia di scatenare guerre commerciali e protezionismo, mettendo la parola fine su ogni residua velleità di mantenere i mercati aperti”; il Wto è ormai un ricordo, come di una nave impantanata nelle paludi.
Una situazione anche paradossale, sotto un certo punto di vista, perché Europa e Stati Uniti hanno appena avviato trattative per arrivare a un “mercato unico” comune, e non possono certo arrivarci con uno dei due contraenti che sommerge il pianeta di dollari mentre l’altro si carica dei danni di una competitività calante per cause monetarie.
Questa la realtà che il G20 doveva ufficialmente “negare”, mentre tra le quinte ci si avvertiva che continuando di questo passo salta tutto. Lo si capisce bene dal comunicato finale, secondo cui “I tassi di cambio non devono avere come obiettivo la competitivita” e l’aiuto all’economia. Ovvero quello che Usa e Giappoone stanno facendo.
L’obiettivo dichiarato è quello di “muoversi verso un sistema di tassi di cambi determinato dal mercato” che rifletta i fondamentali dell’economia, evitando “movimenti disordinati che hanno un effetto negativo sulla stabilità finanziaria ed economica”.
Le “svalutazioni competitive” sono state nominate espressamente, ma solo per dire che vanno “evitate”. Difficile realizzare questo obiettivo, però, se uno dei paesi principali è il titolare della moneta di scambio e di riserva internazionale, nonché prpenso – da 42 anni a questa parte – a emetterne tutta la quantità che serve a coprire i buchi nel “fondamentali dell’economia” nazionale. La promessa di “resistere a ogni forma di protezionismo e mantenere i mercati aperti” suona così più come un auspicio o una speranza, che non come un impegno ferreo.
L’imbarazzo del Fondo monetario internazionale sulla situazione attuale è palese anche nelle parole della sua direttrice, Christine Lagarde, che ha dovto compiere un capolavoro di cerchiobottismo diplomatico per dire che è infondato parlare di “guerra delle valute”. L’euro si sarebbe davvero rafforzato (per la “forza” dell’economia continentale in recessione?) e lo yen si è indebolito rapidamente, ma l’Fmi “apprezza” le mosse decise dai governi di questi Paesi. Lagarde ha quindi dovuto dire che quanto sta accadendo ai tassi di cambio in questo periodo “riflette il reale valore delle valute”. Ci crede davvero? Beh, se questa affermazione è seguita a stretto giro dalla “necessità monitorare da vicino quanto sta capitando”, vuol dire che le cose non stanno affatto così e non c’è da fidarsi della “correttezza” di Usa e Giappone.
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