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Delocalizzazione addio. Ma c’era una volta l’industria “italiana”

Per capire gli “interessi generali del paese” e gli orientamenti “politici” dell’imprenditoria italiana bisogna guardare i flussi commerciali, gli spostamenti produttivi, le acquisizioni. Altrimenti si fa ideologia e si finisce a parlare di cose che non esistono più. Se mai sono esistite nella forma data loro dalle formule verbali.
Il primo fenomeno da considerare è l’inversione della tendenza chiamata delocalizzazione. Le imprese “italiane” che spostavano altrove la produzione a caccia di costo del lavoro ultrabasso. Dopo venti anni, visto che tutte le imprese europee hanno fatto altrettanto, l’effetto “competitivo” di questa scelta sta venendo meno.
Intanto perché “l’industrializzazione massiccia” dei molti “altrove” ha avuto come conseguenza l’aumento dei salari, sia nell’est europeo che nei paesi emergenti. Ma anche perché, qui “in patria”, quella stessa delocalizzazione aveva favorito il processo esattamente opposto: la riduzione dei salari reali e la precarizzazione del rapporto di lavoro.
La situazione attuale, dunque, presenta assai meno vantaggi di prima su questo fronte. Anche se ancora non si può parlare di “parificazione salariale”, certo il margine si è molto ridotto.
Emergono solo ora, dunque, nel calcolo economico d’impresa, alcune “disfunzioni” che prima potevano passare inosservate o che restavano ininfluenti. La qualità dei prodotti, la qualificazione del personale locale, le viscosità sempre presenti quando si lavora in contesti culturali e linguistici molto differenti.
Ci si deve aggiungere l’esplosione dei costi del trasporto – tranne un breve momento successivo alla recessione iniziata nel 2008 – susseguente alla dinamica dei prezzi dei carburanti e dei noli navali.
Ce n’era abbastanza per inertire la rotta. Tra le aziende più note ad aver fatto questa scelta vengono segnalate – ma solo sulla stampa economica specializzata, in  modo che l’informazione resti tra gli addetti ai lavori – Belfe (abbigliamento, prima emigrata in Cina), Bolzoni (carreli elevatori di ritorno dall’Estonia), la stessa Ikea (svedese) che ora fa fare i rubinetti nel Verbano, da sempre “distretto specializzato”, anziché in Cina.
Sulla stessa strada anche le scarpe Lumberjack (dalla Cina all’Italia), che nel frattempo però sono diventate di proprietà turca. E qui le cose significative da segnalare sono almeno due: la proprietà è diventata straniera “emergente”; nemmeno in Turchia si risparmia più tanto sul costo del lavoro rispetto all’Italia (specie se quelle scarpe pensi di venderle qui).

Ma sono centinaia le imprese che hanno cambiato nazionalità e proprietario. Almeno 437 solo negli ultimi cinque anni. Il 20% è stato comprato dagli americani, il 15% dai francesi. E qui si comincia a capire anche come l'”austerity tedesca” faccia meno presa sulle imprese basate in Italia. Prima la prevalenza assoluta era data dai “contoterzisti” che lavorano producendo componenti per macchinari tedeschi da esportazione. Ora gli interessi “geostrategici” di riferimento sono più differenziati. E si è creata una “base” industriale che guarda (viene in realtà “guardata”) in altre direzioni.
Il fenomeno è talmente rapido e travolgente che si sono mossi anche i servizi segreti, che hanno segnalato – nella loro ultima relazione semestrale – i rischi derivanti dallo “shopping” straniero, specie quando va a toccare le imprese che operano in settori strategici (dall’energia al militare).
Se lasciassero perdere i movimenti sociali e si occupassero di più dei movimenti del capitale potrebbero persino diventare utili a qualcosa…

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1 Commento


  • almanzor

    “Per capire gli “interessi generali del paese” e gli orientamenti “politici” dell’imprenditoria italiana bisogna guardare i flussi commerciali, gli spostamenti produttivi, le acquisizioni. ”

    Concordo al 100%. Anzi al 200% se Conti potesse integrare (con link o riferimenti alle fonti) i suoi preziosi contributi: in un’epoca in cui è impossibile avere cento occhi e tempo illimitato sarebbe assai utile. Grazie.

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