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Padroncini da cortile, persi nella globalizzazione

Come sempre, da 40 anni a questa parte, Repubblica ci arriva per ultima, quando ormai la borghesia che va coccolando non ha più né freschezza né intenzione per invertire la tendenza. Questo editoriale di Marco Panara, peraltro molto buono, prende forma solo dopo la denuncia avanzata dal Governatore della Banca d’Italia, Ignazio Visco. E’ come se solo ora si potesse dire quel che tutti, nel mainstream economico-informativo, sapevano. Sarebbe ora però che venisse informato anche il direttore Ezio Mauro, nonché il classico padre-padrone Eugenio calfari. I quali invece continuano imperterriti a blaterare di “competitività” con l’occhio puntato sul costo del lavoro. Come se l’affamamento del lavoro potesse essere davvero una via intelligente per “far ripartire la crescita”.
Certo, la strada per prendere atto che c’è una crisi di sistema, e che “la ripresa” non è affatto dietro l’angolo è molto lunga. Del resto, come si fa  a far capire a un esegeta del capitalismo che stavolta – con molte evidenze – non si tratta di una “crisi come le altre”?
Per l’Italia, comunque, è la fine del “capitalismo familiare” e familistico. La lezione che arriva dalla Cina è stata in fondo proprio questa: saltare la fase dell’impresa “di famiglia” per approdare direttamente alla società per azioni. Insomma, se vuoi fare il capitalista, stai alle regole del capitalismo. Non a quelle degli interessi familiari.

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Un sistema che è rimasto all’era dei padroni-manager
Hanno già perso la prima fase della globalizzazione, non hanno affrontato nodi strategici quali l’aperura a nuovi capitali e a nuovi aministratori esterni alle famiglie. Le imprese si sono così indebolite e rischiano di non essere in grado di cogliere la ripresa in arrivo.

Marco Panara

Siamo arrivati in ritardo sulla prima fase della globalizzazione e siamo in ritardo anche sulla seconda. Il capitalismo italiano è lento, aggrovigliato, opportunista. Non corre al ritmo del mondo nelle scelte industriali e negli assetti proprietari. Nella prima fase della globalizzazione, caratterizzata da una competizione da costi e mossasi come un tornado, con imprese dei paesi industriali che andavano a produrre dove il lavoro costa meno merci da rivendere nei mercati dei paesi ricchi, i gruppi italiani si sono mossi con dieci anni di ritardo, e per restare a galla hanno abbassato il livello delle loro produzioni andando a competere proprio con i paesi emergenti. Una parte importante di esse ha preferito inseguire la Cina (senza averne la fame e il dinamismo) piuttosto che la Germania.
Ora la globalizzazione ha cambiato segno, non sono più le solite imprese dei paesi ricchi a produrre nei paesi emergenti per i mercati dell’Occidente, ma a competere ci sono anche i coreani (Samsung e Hyundai), i cinesi (Huawei e Haier), indiani, brasiliani, turchi, sudafricani, per citarne alcuni, che competono con le vecchie multinazionali europee, americane e giapponesi non più solo sui mercati ricchi ma su tutti i mercati, con quelli emergenti che crescono più degli altri. Un imprenditore indonesiano vuole comprarsi l’Inter mentre un gruppo russo si è già comprato un pezzo della Saras e un altro l’attività di raffinazione della Erg.
La competizione oggi, anche se i costi sono sempre importanti, si vince con la creazione di valore, con l’innovazione, con la qualità.
Le imprese italiane che reggono la concorrenza internazionale lo sanno e lo fanno. Ma sono poche. La Germania questo lavoro sul valore aggiunto lo fa da sempre, ed ha aumentato il passo all’inizio degli anni Duemila. Ma le scelte industriali sbagliate, opportunistiche o tardive dei più non sono il frutto di errori di valutazione, hanno dietro almeno tre fattori: il sistema paese, lo sappiamo, è quello che è e che non riusciamo a cambiare; l’età degli imprenditori e la loro scarsa propensione alla nuova cultura digitale e globale, la difficoltà ad affidarsi a forze manageriali dinamiche; la struttura degli assetti proprietari.
La proprietà in questo processo, in questo mancato dinamismo, conta moltissimo, per una serie lunga di ragioni. Andare a produrre in Cina per riesportare in Occidente venti anni fa voleva dire mettere in gioco investimenti e competenze, oltre a coraggio e vitalità imprenditoriale.
Competere oggi sulla creazione di valore vuol dire investimenti in innovazione, in organizzazione, in internazionalizzazione. Vuol dire testa e risorse. La prima c’è chi ce l’ha e chi no, il problema è la consapevolezza e la disponibilità a passare la mano. Quanto alle risorse i capitalisti nostrani o non le hanno o non le vogliono mettere nelle aziende, preferendo diversificare, creare patrimoni immobiliari, investire in hedge fund in paradisi fiscali. Sono scelte, a volte anche legittime, ma voler rimanere i padroni e controllare le aziende anche quando non si hanno o non ci si vogliono mettere dentro le risorse necessarie a sfidare i tempi e a costruire il futuro determina il soffocamento delle aziende stesse. Che infatti in molti casi chiudono, oppure soffrono, raramente vincono.
Ma questo sistema necrotizzante mostra finalmente delle crepe. Per una ragione semplice quanto sostanziale: non ci sono più i soldi. Le banche non ne danno più, e anzi li rivogliono indietro. Le imprese per stare a galla e conquistarsi o mantenere un posto al sole devono focalizzarsi sui loro business. L’epoca delle conglomerate, come quella delle partecipazioni incrociate è finita per mancanza di grasso. Qualcuno ha cominciato a disboscare, altri cominciano a pensarci, altri ancora vorrebbero farlo ma la politica rallenta.
Finmeccanica, per fare un esempio, da più di un anno ha realizzato di non avere le risorse per sviluppare tutti i suoi business e ha deciso si rinunciare ai trasporti e all’energia. Ci sono anche cose buone in quei settori, ma il problema è il loro futuro, gli investimenti necessari per innovare e competere, e quelle risorse se Finmeccanica vuole continuare ad essere forte in qualcosa le deve concentrare nella difesa e nell’aeropsazio.
Vale anche per le banche, e qui sono le fondazioni azioniste il problema. Unicredit, messa alle strette dalle difficoltà in cui l’ha spinta la crisi (e da qualche scelta sbagliata) ha cominciato prima, Intesa San Paolo, che ha sofferto meno in questi anni bui, anche perché si era esposta meno, è oggi in ritardo su questa strada, e non per inconsapevolezza del suo management quanto per la struttura della sua proprietà. Ci sono casi di scuola, come Prysmian per esempio, che venduta da Pirelli a basso prezzo e diventata una public company ha trovato le risorse e il dinamismo per crescere internazionalmente. I casi Impregilo, Fonsai, Camfin, la stessa Rcs, testimoniano della pressione sugli assetti proprietari che arriva dalla realtà.
Chi non si è ancora adeguato deve accelerare, vedremo altri cambiamenti, altre fratture nei prossimi mesi. Mentre incombe un nuovo rischio. La mancanza di denaro piega i vecchi assetti proprietari, e questo è un bene, ma piega anche le strategie industriali. Quando il capitale è poco e il credito manca, le imprese tendono a investire sul breve termine, rinviando gli investimenti a medio e lungo. Sacrificano capitale umano per l’outsourcing, rinunciando a competenze interne, non investono in ricerca, in macchinari nuovi. Preferiscono il domani al dopodomani. Certo, primum vivere, ma c’è un impoverimento strutturale del potenziale di crescita.
Il rischio è che quando arriverà la ripresa potremmo non essere in grado di coglierla. Dal grafico appare con chiarezza il marcatissimo decremento degli investimenti nella maggior parte dei settori.

da Repubblica – Affari e finanza

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