Due notizie in un solo giorno sono già una “grossa novità”, in quel mondo felpato che sono i vertici dell’Unione Europea. Se poi si tratta di decisioni che vanno a incidere sui meccanismi di funzionamento dell’Unione stessa, è necessario vederli da vicino e soppesarne l’importanza.
La prima, e più mediatizzata, riguarda la sentenza attesa dalla Corte Europea sulla legitimità o meno dell’acuisto di titoli di stato (dei paesi Piigs, sostanzialmente) da parte della Bce. Il piano di Draghi incriminato è ormai abbastanza superato (il cosiddetto Omt), ma il ricorso metteva di fatto in discussione la progressività dell’integrazione istituzionale europea. La questione era stata sollevata in Germania, con un ricorso alla Corte Costituzionale di Berlino, in quanto gli impegni presi dalla Bce avrebbero comportato una “mutualizzazione del rischio” tra i diversi paesi della ue con coinvolgimento dei contribuenti tedeschi. Una conseguenza “sgradita” dell’Unione, perché comporta che “il ricco” sia chiamato a contribuire al salvataggio del “poevro”, accusato sempre di essere anche scialacquatore (in tedesco con la parola “shuld” si indica sia il debito che la colpa).
In realtà la sentenza ancora non c’è stata, ma l’avvocato generale della Corte europea di giustizia, Pedro Cruz Villalon, in pratica “il rappresentante dell’accusa”, ha sostenuto nella sua requisitoria che il piano Omt era «necessario» e che «in principio» è in linea con la legislazione europea.Scontata quindi “l’assoluzione” di Draghi e il via libero giuridico alle prossime decisioni della Bce in materia di quantitative easing. Il 22 gennaio sapremo i dettagli, ma le indiscrezioni autrevoli già depotenziano molto le attese (vedi https://contropiano.org/economia/item/28558-la-spinta-della-bce-un-salvataggio-delle-banche-a-nostre-spese).
La seconda notizia riguarda la complessa trattativa avvenuta in Commissione (il “governo” della Ue) sulla possibilità di mantenere i trattati vigenti in materia economica concedendo però una “interpretazione più flessibile”, tale da consentire ai paesi sullìorlo del baratro (Grecia in primo luogo, con Spagna, Portogallo, Italia e Francia in seconda battuta), di avere più tempo per rientrare nei parametri e qualche margine in più per effettuare investimenti.
L’articolo di Adriana Cerretelli su IlSole24Ore spiega a sufficienza come la decisione partorita da Juncker e soci sia un compromesso gattopardesco, un voler salvare capra (i trattati che impongono austeritàe pareggio di bilancio ferreo, quindi l'”interpretazione tedesca”) e cavoli (un po’ di fiato per provare a rovesciare la corsa al disastro, chiesta dai Piigs più la Francia).
Come tutti i compromessi che non devono toccare neanche la forma, quella della Commissione è una linea che non cambia granché nella gestione della crisi da un punto di vista strettamente capitalistico. Qualche elasticità viene concessa solo in virtù della gravità della crisi, che ormai sta colpendo la stessa Germania, precipitata anch’essa nella deflazione, se non ancora nella recessione. Ma con margini così stretti da inficiare seri tentativi di “stimolare la crescita” tramite investimenti. Tradotto: si potrà investire, ma così poco da non produrre effetti significativi.
In più, questo micromargine di flessibilità a breve dovrà essere “compensato” da maggiore velocità di rientro nei parametri quando – ma sembra decisamente difficile – la congiuntura economica dovesse volgere al bello. La “garanzia” sta ancora tutta nella realizzazione delle “riforme strutturali” che l’Unione consiglia a tutti i suoi membri (sempre le stesse: distruzione della legislazione a protezione del lavoro, taglio drastico del welfare, sanità inclusa, allungamento dell’età pensionabile, ecc).
Nei fatti, l’Unione rinuncia a fare rispettare sul serio tempistica e quantità previste dal Fiscal Compact, rimandandone implicitamente l’applicazione. Ma non rovescia affatto la sua impostazione “austera”. Al massimo concede tempo, allentando per un anno o due il cappio intorno al collo. Ma, con buona pace di Renzi e degli altri chiacchieroni da quattro soldi, non “cambia verso”. Nemmeno un po’…
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L’articolo de IlSole24Ore:
Una risposta contro i danni del rigore
di Adriana Cerretelli
Il patto non si tocca. La maggiore flessibilità interpretativa non ne intaccherà né la logica né le regole, aveva annunciato all’europarlamento Jean-Claude Juncker mentre ancora nel collegio erano in corso discussioni molto accese. Un’ora dopo il presidente della Commissione Ue è apparso però nelle vesti di degno emulo del principe di Salina, deciso come lui a «non cambiare nulla perché tutto cambi». O quasi.
Il patto resta intatto ma i contrafforti che gli sono stati precipitosamente costruiti intorno negli anni concitati dell’emergenza euro, il 2-pack, il 6-pack, il fiscal compact, risultano decisamente indeboliti. Non fosse altro perché, fuori dalle ipotesi di scuola e alla prova della realtà dell’economia, l’eccesso di rigore che ne è derivato non solo ha mostrato grossi limiti ma anche e soprattutto ha provocato danni evidenti: politici, economici, sociali e finanziari, facendo salire i Jdebiti pubblici che si volevano abbattere, bloccando la crescita dell’economia, moltiplicando i disoccupati, innestando la caduta dei prezzi.
Costretto a muoversi tra l’ortodossia tedesca e l’economia dell’1% attesa nel prossimo decennio, Juncker ha scelto di lavorare ai fianchi della prima preservandone però essenza e disciplina. Salvaguardando Maastricht ma sfruttando tutti gli spazi disponibili per dare fiato allo sviluppo e agli investimenti, crollati di più del 20% negli ultimi 10 anni.
E per risparmiare in marzo alle due maggiori economie dell’area, Francia e Italia, trattamenti eccessivamente punitivi.
Trattamenti che avrebbero scatenato una crisi politica ingestibile nel primo caso e, nel secondo, contraccolpi economico-finanziari insostenibili per un paese in recessione da 3 anni.
Il miracolo di equilibrismo tra obiettivi apparentemente inconciliabili si compie con la nuova clausola sulle riforme strutturali, il premio agli investimenti, una nuova valutazione dell’impatto del ciclo economico sui paesi. Quanto più i paesi si dimostreranno virtuosi, soprattutto nello sforzo di ammodernamento delle rispettive economie, tanto più beneficeranno di un trattamento più benevolo da parte di Bruxelles al momento degli esami.
Per l’Italia con un deficit inferiore al 3%, un debito più che doppio rispetto al tetto massimo del 60% di Maastricht, con un out gap superiore al 4% e un’economia in recessione da tre anni e prospettive di ripresa alquanto smorte, la svolta significa almeno due cose: se farà riforme strutturali «importanti, con effetti positivi verificabili sul bilancio nel lungo termine, compreso l’aumento del potenziale di crescita, ed effettivamente attuate» potrà deviare temporaneamente per una percentuale non superiore allo 0,5% del Pil dall’obiettivo del pareggio di bilancio, a patto che non superi il 3% di deficit. E a patto che raggiunga il pareggio entro 4 anni dal quando ha fatto scattare la clausola.
In questo scenario l’Italia sfugge alla procedura e riesce a rinviare il pareggio al 2017. Non solo. Lo stato disastrato dell’economia le consente di neutralizzare anche i contraccolpi del fiscal compact, visto che alla luce dei numeri attuali, lo sforzo di riduzione previsto si ridurrà allo 0,25% contro quasi il triplo che avrebbe dovuto fare altrimenti.
Naturalmente, la morsa del patto tornerà a stringersi nelle congiunture favorevoli, con richieste di sforzi aggiuntivi. Per chi promettesse le riforme e poi non le facesse, scatterebbero le procedure previste senza attenuanti. E anche con possibili multe per i paesi euro.
Anche nel caso degli investimenti, un nuovo occhio di riguardo non solo per quelli destinati a rimpinguare le casse del nuovo Fondo strategico europeo ma anche per quelli mirati a finanziarne i progetti. In questo caso, il non rispetto del tetto del 3% non farebbe scattare la procedura anti-deficit eccessivo qualora lo scarto fosse limitato e temporaneo. Naturalmente a condizioni precise , puntigliosamente elencate.
Anche se resta un percorso ad ostacoli da svolgere sotto l’attenta sorveglianza di Bruxelles, il nuovo codice europeo per la flessibilità rappresenta un modo diverso e più equilibrato di fare politica economica europea. Non è la rivoluzione ma un cambiamento che, se sfruttato con serietà e intelligenza dai singoli paesi, potrà con il tempo guarire molti mali dell’eurozona: le troppe divergenze interne, la profonda crisi di fiducia in cui è caduta, l’euroscetticismo che la tormenta. Per l’Italia sarebbero fuori luogo i trionfalismi, non la consapevolezza di aver dato una mano all’avvio del nuovo corso. Di una solida ripresa europea, si spera.
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