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Shale oil, l’inizio della fine

A quanto pare i sauditi stanno per eliminare uno dei concorrenti. E gli Stati Uniti sono in procinto di chiudere – o limitare fortemente – un settore che aveva permesso loro di tornare all’autonomia energetica.

Le compagnie impegnate nel cosiddetto “shale oil”, mediante la costosa e dannosissima tecnica del fracking, sono economicamente alla canna del gas. Da un lato hanno fatto grandi investimenti a debito – direttamente con le grandi banche oppure emettendo obbligazioni – dall’altra il crollo del prezzo internazionale del greggio, precipitato del 50% rispetto a un anno fa, per effetto della produzione record permessa dallo stesso shale e dalla decisione saudita di pompare a più non posso. Il tutto, quando il paese che consuma (e compra) più petrolio ha cominciato a rallentare il ritmo della crescita produttiva (la Cina), facendo precipitare contemporaneamente i prezzi di tutte le materie prime.

L’allarme è partito dalle banche Usa, pesantemente esposte verso i frackers. Stanno aumentando velocemente, infatti, gli accantonamenti di capitale necessari a far fronte ai considdetti “crediti incagliati”. Le stesse banche assicurano che si tratta di cifre tutto sommato limitate, non tali da scatenare rischi sistemici. Ma altrettanto non può dirsi dei “clienti”, che a questo punto non potranno chiedere nuovi prestiti e, contemporaneamente, si vedranno tempestare di richieste di “rientro”; ossia di restituzione dei vecchi crediti.

Il momento, sul piano finanziario, non potrebbe essere peggiore, visto che i prezzi del petrolio stanno ben sotto il costo di produzione dello shale (anche se diverso da giacimento a giacimento, ma nella media è sopra i 60 $ al barile, mentre la quotazione del Wti sta intorno ai 50). Ed è escluso che possano emettere nuovi titoli, dato che si trovano al contrario nella condizione di dover ripagare quelli in scadenza. Un breve calcolo dei quotidiani specializzati stima in 235 miliardi i titoli di di debito emesso dal settore nei soli Stati Uniti, il 10% dei quali è già ora considerato “distressed”.

Il secondo produttore di shale gas statunitense, Chesapeake Energy, ha annunciato che questa volta non distribuirà dividendi agli azionisti. E persino Halliburton, famosa per aver avuto tra gli amministratori delegati addirittura un vicepresidente degli Usa, come Dick Cheney, ha dovuto chiedere un prestito da mezzo miliardo di dollari al fondo BlackRock.

Come sempre, quando arriva la crisi, i grandi corrono ai ripari per salvarsi; e hanno buone possibilità di riuscirci. Ma per i piccoli (la stragrande maggioranza delle 14.000 società del settore) è già ora notte fonda.

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1 Commento


  • walter

    Ogni tanto una buona notizia

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