E’ una delle regole più antiche del capitalismo: quando c’è crisi, e non si vede dove fare profitti veri, partono le fusioni tra i gruppi più grandi. In questo modo si alza l’asticella della competizione tra capitali, perché l’investimento minimo per stare alla pari vola alle stelle e fa fuori, preventivamente, un bel mucchio di concorrenti.
E’, sia detto tra parentesi, l’esatto contrario della psudo-soluzione adottata in Italia: “piccolo è bello”. Nel mondo capitalistico questa è una sciocchezza che non va neanche pensata. Che si sia imposta con tanta facolità è anche una delle ragioni – non certo l’unica – del declino di questo paese, povero di imprenditori “amanti del rischio” e popolato di mezze figure che prosperano a ridosso della spesa pubblica.
Sul piano simbolico, il fatto che il più rispettato quotidiano economico del pianeta, il tempio dell’informazione anglosassone, diventi di proprietà giapponese ha il sapre della fine di un’epoca. Per non smarrire quell’aura di attendibilità assoluta che è il vero valore aggiunto di un giornale economico, i nuovi proprietari – il gruppo Nikkei, che controlla anche l’indice della borsa di Tokyo, con una curiosa proprietà fatta di dipendenti ed ex dipendenti – si sono precipitati a garantire che mai e poi mai metteranno bocca sull’autonomia del giornale e dei singoli giornalisti.
A questo livello, del resto, non c’è spazio per le berlusconate o le renzate. Anche solo il sospetto che un organo di informazione in materie così “delicate” possa aurocensurarsi o dare notizie “manovrate” distruggerebbe in un attimo tutto il valore della testata, conquistato in decenni di attento lavoro di centinaia di analisti, editorialisti, direttori e lettori attenti. Il Financial Times, come altri giornali economici ma più degli altri, fornisce infatti un servizio decisivo per tutti i manager o gli imprenditori di livello globale. Rispetto ai differenti interessi in gioco deve dunque essere assolutamente obiettivo e imparziale per risultare attendibile.
Il gruppo inglese Pearson ha ceduto la testata per poco più di un miliardo di euro, ma mantiene il 50% del gruppo The Economist (come l’altrettanto prestigioso settimanale), che gestisce numerose altre aree di informazione professional.
E’ in ogni caso un episodio chiave della mutazione in corso nel capitalismo globale, con lo spostamento del baricentro verso l’Asia e il Pacifico. Per il capitalismo giapponese è anche una mossa indispensabile per uscire da una situazione alquanto marginalizzante. Sul piano industriale, infatti, i prodotti made in Japan hanno vaste quote di mercato e presentano standard qualitativi elevati. Ma sul piano dove si incrociano informazione e indici economici (non solo di borsa), il rischio del “provincialismo” era e resta fortissimo, visto che la Cina è molto più dinamica oltre a presentare una capacità operativa – pesata di miliardi di disponibilità finanziaria – decisamente superiore.
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