Seconda svalutazione in due giorni. La Cina fa sul serio ed ha avviato un percorso di “aggiustamento” del valore di cambio dello yuan che appare storico in molti sensi.
Soltanto ieri aveva proceduto a una svalutazione dell’1,0%, fissando il mid point a 6,2298 contro il dollaro. Sembrava ed era stata presentata come una mossa una tantum. Stamattina, invece, nuova riduzione dell’1,6%, a quota 6,3306.
Il meccanismo controllato dalla Banca centrale cinese prevede un margine di oscillazione del 2% rispetto al punto medio, quindi sui mercati lo yuan è scivolato fino a 6,6, il punto più basso degli ultimi quattro anni.
Il contraccolpo maggiore lo hanno subito i prezzi delle materia prime. Già il petrolio, ieri, aveva fatto registrare un record negativo. Stamattina la tendenza si è aggravata, trascinando con sé tutto il comparto. Pesanti anche le borse, a cominciare da quelle asiatiche che hanno mediamente perso tra l’1 e il 2%.
Questi movimenti sembrano dettati da un’interpretazione della svalutazione come “sostegno alle esportazioni”, e fanno pensare ad un rallentamento dell’economia di Pechino (il maggior importatore di greggio e molte altre commodities). Il Vietnam ha già reagito svalutando parallelamente la sua moneta – il dong – raddoppiando il margine di oscillazione dall’1 al 2% rispetto al punto medio (stesso sistema adottato dalla Cina). Ma altri paesi dell’area si starebberompreparando a fare altrettanto.
Il Fondo Monetario Internazionale, invece, come aveva già fatto ieri, dà un’interpretazione diversa e sostanzialmente “positiva” della decisione cinese: “una maggiore flessibilità nel tasso di cambio è importante per la Cina, che va in direzione del conferimento alle forze di mercato di un ruolo decisivo nell’economia e si sta rapidamente integrando nei mercati finanziari globali”.
In pratica, il Fmi ritiene che la Cina stia semplicemente percorrendo – a tappe, decisa centralmente – il sentiero che porta alla futtuazione libera della moneta, al pari dell’euro e del dollaro. “Crediamo che la Cina possa e debba mirare a conseguire entro due o tre anni un sistema di cambio effettivamente fluttuante”, conclude infatti una mail partita – senza nome della fonte – dall’interno del Fmi.
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