In una comunità economica non solidale – ovvero non governata secondo linee di riduzione delle differenze di sviluppo – chi è più forte ci guadagna, e chi è più debole ci perde. Non è cattiveria, è una regola semplicissima di funzionamento della normale dinamica costi/benefici, vantaggi/svantaggi.
Essendo una regola semplice, la conoscono quasi tutti. Specie i soggetti più forti, che sistemano istituzionalmente le regole in modo che questo trasferimento diretto di ricchezza avvenga nel più “spontaneo” dei modi, senza che appaia all’universo mondo per quello che è: una rapina a mano pesantemente armata.
Nell’Unione Europea questa situazione è la norma, da molti anni a questa parte. Ed ogni evento critico, anche se causato proprio da questo assetto (oltre che dalla più ampia crisi sistemica del capitalismo), viene utilizzato per renderlo ancora più stringente. Ed anche questo è ovvio: meno risorse ci sono, più cresce la competizione per accaparrarsele, più “i forti” stringono alla gola “i deboli”.
Se non vi è bastata la vicenda greca, con Tsipras “costretto” alla resa (si è parlato addirittra di waterboarding mentale, in occasione della firma dell’”accordo” del 12-13 luglio), potrebbe aiutarvi a capire meglio la situazione uno studio pubblicato due giorni fa dall’Halle institute for economic research (Iwh), uno dei principali istituti di ricerca economica in Germania. Studio che ha preso in esame la dinamica dei tassi di interesse sui titoli di stato – differenziatissima, tra i 19 paesi dell’eurozona – nel corso dell’evoluzione della crisi, dal 2008 ad oggi.
La conclusione non è molto originale – ci permettiamo di far notare che l’avevamo notata da tempo, come molti altri commentatori – ma ha un forte potere d’impatto proprio perché proviene da un istituto scientifico tedesco: «Il pareggio di bilancio in Germania è in gran parte il risultato di pagamenti di interessi più bassi a causa della crisi del debito europeo».
Vi sebra un po’ criptico? Allora sciogliamo l’arcano. Ogni paese dell’eurozona si finanzia o rinnova il proprio debito emettendo titoli di stato, su cui paga un tasso di interesse fisso (stabilito al momento dell’emissione) più uno spread derivante dalle oscillazioni di prezzo sui mercati. Un titolo di stato viene “piazzato” al prezzo convenzionale di 100 euro, ma è chiaro che se si tratta di un Bund tedesco – ritenuto “molto sicuro”, perché lo Stato in questione è certamente solvibile, ossia restituirà certamente la cifra piena alla scadenza del titolo – il prezzo che gli investitori sono disposti a pagare sarà anche superiore alla cifra nominale (es: 120 euro). In questo modo l’investitore (una banca, un privato, chiunque) rinuncia consapevolmente a una parte degli interessi che dovrà ricevere nel corso degli anni (la cedola a tasso fisso o indicizzato a qualche altra dinamica variabile) pur di avere la certezza che i suoi soldi rientreranno.
Al contrario, se lo Stato emittente è considerato “a rischio”, quel prezzo fissato dal mercato per tenere nel cassetto un titolo sarà più basso di 100 (es: 60). In questo modo l’investitore pretende un guadagno possibile molto più alto di quello proposto dall’emittente, sommando alla cedola fissa (o variabile) il guadagno derivante dal prezzo basso pagato ora rispetto ai 100 euro che dovranno essergli restituiti a scadenza. L’incertezza si paga, insomma. E anche cara.
Cosa è successo con l’esplosione della crisi del 2008 e quindi con quella del debito pubblico greco (e degli altri Piigs)?
Tutti gli investitori sono corsi ad accaparrarsi titoli di stato tedeschi. Così facendo la Germania si è venuta a trovare nell’invidiabile condizione di potersi finanziare (o rifinanziare, sostituendo i titoli di stato in scadenza con altri di nuova emissione) a costo praticamente zero. Anzi, visto che in alcuni periodi i tassi di interesse pagati sono diventati addirittura negativi, guadagnandoci sopra.
Questo clamoroso risparmio ha permesso allo Stato tedesco di raggiungere molto facilmente il pareggio di bilancio, senza dover adottare alcuna politica di taglio della spesa pubblica.
La stessa dinamica, per i paesi Piigs (Portogallo, Italia, Irlanda, Grecia, Spagna), ha prodotto il risultato opposto, costringendoli a pagare interessi molto più alti sul debito e quindi a ricercare l’impossibile “pareggio di bilancio” (diventato obbligatorio, perlomeno tendenzialmente, al punto da essere inserito nella Costituzione italiana senza alcuna discussione politica pubblica) con tagli spesa e/o avanzi di bilancio sempre più colossali.
In pratica, i paesi deboli – Grecia in primis – hanno finanziato la Germania (e l’Olanda, la Finlandia e via elencando i “paesi virtuosi” del Grande Nord). E devono continuare a farlo…
Spiega infatti l’Ivh che la crisi del debito ellenico ha portato a «una riduzione dei tassi del Bund di circa 300 punti base»; ossia un risparmio di oltre 100 miliardi, più del 3% del Prodotto interno lordo (Pil) della Germania. Un effetto obbligato della diversa “credibilità” dei vari stati che però condividono la stessa moneta e gli stessi obblighi teorici. «Il risultato» è che «la Germania ha beneficiato in modo sproporzionato di questo effetto».
Gli studiosi dell’Ivh hanno però analizzato non solo la tendenza di lungo periodo, ma anche l’impatto sui mercati e sullo spread di ogni singola notizia negativa per la Grecia o uno dei paesi deboli. «Gli effetti sono simmetrici» e quando si sono verificati “eventi importanti” i mercati hanno reagito con movimenti anche di 20-30 punti base al giorno. Inutile dire che già solo la vittoria elettorale di Syriza, per non dire della vittoria del “no” al referendum del 5 luglio, hanno prodotto osccillazioni negative dello spread particolarmente ampie. E quindi robusti guadagni per le casse pubbliche tedesche.
Fin qui tutto chiaro. Ma quanto ci ha guadagnato Berlino? La retorica para-leghista di Angela Merkel e Wolfgang Schaeuble dice che “i contribuenti tedeschi non possono pagare le pensioni di quegi scansafatiche dei greci”, e che “sono stati concessi fin troppi aiuti” che probabilmente non torneranno mai indietro.
La realtà contabile quantificata dall’Ivh è decisamente diversa. Pur utilizzando una “metodologia standard” per effettuare la simulazione (“come sarebbe andata se” gli spread non avessero dovuto oscillare per la crisi del debito greco) hanno calcolato che la Germania ha risparmiato oltre 100 miliardi di euro nel solo periodo 2010-2015. Mentre la quota tedesca degli “aiuti” concessi alla Grecia – prestiti che dovrebbero essere restituiti – ammonta a circa 90 miliardi.
La conclusione dell’Inh è identica a quella che ognuno di voi, a questo punto, avrà tratto dalla lettura: «Se la Grecia paga i suoi debiti, o paga in parte, i risparmi sono notevoli». Ma anche se non restituisse neanche un euro «la Germania sarebbe comunque in vantaggio».
Al capitale multinazionale, comunque, questo guadagno non basta.Per questo pretendono altre “riforme strutturali” e tante privatizzazioni…
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