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Pechino svaluta lo yuan e risponde alla “guerra delle monete”

Anche la Cina partecipa alla “guerra delle valute”? La domanda sembra aver avuto una risposta positiva, stamattina, quando la Banca centrale cinese ha fissato la parità dello yuan, il cosiddetto «midpoint», da 6.1162 a 6.2298 contro il dollaro. Una svalutazione di fatto del 2%, sulla cui interpretazione gli analisti si dividono.

Il valore di cambio yuan cinese è fissato quotidianemente, in conclusione di seduta, intorno a un punto medio e un margine di oscillazione del 2%, verso l’alto o il basso. Quando nelle contrattazioni il valore si avvicina a una delle soglie estreme la Banca centrale interviene comprando o vendendo yuan per riportare il valore al punto considerato “desiderabile”.

Il perché è scritto nella pianificazione cinese; chi è fuori può solo congetturare. Sembra comunque fragile l’ipotesi di chi ritiene questa mossa una classica svalutazione competitiva, mirante a sostenere le esportazioni (che nell’ultimo anno sono calate dell’8,3%). Questa ipotesi in effetti non tiene presente che il “piano quinquennale” in vigore – così come quello precedente – mira esattamente all’obiettivo opposto: ovvero rendere l’economia del Celeste Impero ancora meno dipendente dalle esportazioni.

La banca inglese Barclays, invece, la ritiene una mossa “furba” lungo la strada che deve portare ad un altro obiettivo dichiarato dalle autorità cinesi: fare dello yuan una moneta “di riserva”, come le altre più importanti a livello globale, in vista dell’ingresso ufficiale nel “paniere di monete” da prendere in coniderazione per i diritti speciali di prelievo del Fondo Monetario Internazionale.

Comunque sia, è il segnale che Pechino non starà a guardare mentre tutte le altre banche centrali del pianeta mettono in atto politiche di svalutazione indiretta, come i prolungati quantitative easing della Federal Reserve staunitense, della Banca d’Inghilterra, della Bce o della Banca del Giappone. Per quanto poco possano infatti incidere quelle strategie sull’economia cinese, infatti, non era neanche pensabile che non esistesse un limite di tollerabilità che è stato ora evidentemente superato.

Erano 21 anni che Pechino non interveniva con una svalutazione. Da quando, insomma, ha cominciato a far oscillare lo yuan sempre più indipendentemente dalle oscillazioni del dollaro.

La decisione ha avuto pesanti effetti immediati sull’andamento delle borse, anche perché va ad incidere sulla tendenza già negativa delle materie prime, e quindi delle società che le producono o le esportano, come le grandi multinazionali dell’energia.

Sulla Cina abbiamo nei giorni scorsi pubblicato due lunghi articoli di Walter Ceccotti. Ci sembra dunque questa l’occasione miglio per pubblicarne un terzo, che spiega l’”Abc” di quel sistema.

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AB-China

Le recenti dichiarazioni del presidente cinese sul ruolo delle aziende di Stato cinesi chiudono il cerchio di una serie di riflessioni sul modello cinese iniziate su Contropiano a partire dalla fine del 2011 e proseguite nel 2012, anno del diciottesimo congresso del Pcc, fino ad oggi.

Il presupposto fondamentale dell’inchiesta era se le politiche di espansione dello stato sociale del decennio di Hu Jintao e di Wen Jiabao(2002-2012)sarebbero continuate sotto Xi Jinping o se ci sarebbe stata una battuta d’arresto. 

La risposta dopo due anni è stata positiva, non vi è stata una revisione di quelle politiche.

Inizialmente il dibattito si era concentrato sul ruolo delle aziende di Stato, base economica del socialismo in Cina. 

Le istituzioni liberiste internazionali ne chiedevano e ne continuano a chiedere la dismissione, come parte della guerra mondiale dei mercati contro tutto ciò che è pubblico, in Cina, come in ogni altro paese. 

Ciò che non serve alla riproduzione del capitale privato va tagliato, riducendo all’osso la struttura economica pubblica/statale secondo una spirale tagli/debito.

La Grecia in questo senso è un esempio più che evidente.

Il risultato di questa domanda sulle linee di tendenza della politica economica cinese ha richiesto tre anni per essere confermato e consolidato. 

La risposta è che la leadership cinese ha optato per la stabilità del sistema. E anzi ha aperto nuovi campi di confronto come la guerra alla corruzione, i tribunali ambientali sul piano interno; la via della seta, l’appoggio alla Russia e il ruolo finanziario dei Brics in politica estera.

Quello che però manca, e di cui ci siamo resi conto nel tempo, è una sorta di ABC, di conoscenze di base del nostro pubblico, che in quelle analisi erroneamente davamo per scontate, rispetto alla vasta e variegata realtà cinese. 

Questi elementi base di conoscenza delle tendenze che si possono comunque estrapolare nonostante le contraddizioni interne cinesi, ci sembra che non siano affatto elementi diffusi e che la confusione o la non conoscenza regnino sovrani al riguardo. 

Questa è una serie di concetti-base nota e stra-nota a tutti gli esperti di Cina e ai sinologi(almeno quelli che hanno studiato un po’ d’Economia), e al contrario difficilmente alla portata del grande pubblico italiano.

Dunque la presentiamo come appendice utile alla lettura e all’interpretazione di articoli sulla Cina in genere, e all’approccio all’universo Cina, soprattutto a quello socio-economico, più che a quello sinologico-culturale.

Presentiamo la scaletta per intero e successivamente punto per punto.

Concetto numero 1: “La Cina non si fa scrupoli quando scrive la lista della spesa”.

Concetto numero 2: il socialismo in economia di mercato non è un’invenzione cinese.

Concetto numero 3: il socialismo cinese si basa su una proprietà pubblica collettiva/statale maggioritaria in cui vigono condizioni di lavoro molto migliori che nei settori marginali dell’economia. Questo modello ha ragioni storiche profonde.

Concetto numero 4: Cina e Urss dopo la rottura degli anni ’60 si sono fatte sul serio la guerra fredda, non si sono limitate alle polemiche a distanza. La Cina è stato l’ago della bilancia nella sconfitta finale dell’Urss, in specie nella guerra in Afghanistan.

Concetto numero 5: i cinesi sono in quella che definiscono “stadio primario del socialismo”

Concetto numero 6: la stragrande maggioranza dei cinesi non vive in condizioni di lavoro ottocentesche di sfruttamento

Concetto numero 7: il socialismo di mercato si adatta bene alle condizioni dei paesi in via di sviluppo, ma non è un modello per l’Occidente, dove livelli di sviluppo delle forze produttive consolidati possono rendere superabili gli elementi mercantili 

Questo ci porta al primo degli ABC sulla cultura e sulla civilizzazione cinese:

 

Concetto numero 1: “La Cina non si fa scrupoli quando scrive la lista della spesa”.

Che cosa vuol dire questo?

 Vuol dire che la Cina ha una storia e una cultura millenaria, ma da quando venne a contatto con l’Occidente, e dopo il periodo delle umiliazioni iniziate con la Guerra dell’Oppio, in Cina è iniziata una vasta operazione culturale, che forte delle caratteristiche della propria civilizzazione, non si è fatta alcuno scrupolo nell’assorbire la scienza, la tecnologia, le tecniche di management e altri aspetti della civiltà occidentale all’interno della propria.

Non considera “fare la lista della spesa” di ciò che in Occidente c’è di buono e utile come un peccato o uno svilimento della propria cultura originaria, anzi ha fatto della necessità di assorbire questi elementi il prima possibile la base della sopravvivenza della propria civilizzazione nel lungo periodo.

Nel senso che senza gli strumenti che hanno reso tecnologicamente, economicamente e militarmente forti le potenze imperialiste occidentali, la cultura cinese nel lungo periodo rischiava l’estinzione. Queste riflessioni avvennero a cavallo tra otto e novecento e trovarono espressione politica nel Movimento del Quattro Maggio alla fine della prima guerra mondiale.

Una riflessione del genere non è avvenuta ovunque nel terzo mondo, in particolare nei paesi arabi, dove il rapporto tra tradizionalismo delle società autoctone e innovazioni dell’Occidente non ha avuto un simile esito. I risultati di questa mancata riflessione nelle élites come a livello di massa sono sotto gli occhi di tutti (Isis).

Sì ma che c’entra la Cina?

La Cina c’entra perché il suo modello economico, suo e, non dimentichiamoci, del Vietnam (altri 80 milioni di abitanti), è un modello economico importato dall’estero, che a fine anni ’70 ha sostituito un altro modello importato, quello sovietico, adottato in Cina dal 1949 al 1978 per sostituire il modello capitalistico occidentale cui si è ispirato il Guomindang dal 1911 all invasione giapponese del ’37.

Come vedete la Cina nel corso della sua storia ha adottato praticamente tutti e quattro i sistemi economici possibili, comprese le economie tradizionali del Celeste Impero.

Quello che si è adattato meglio alle condizioni di arretratezza del paese è stato il socialismo di mercato/socialismo con caratteristiche cinesi.

Anche il capitalismo pianificato giapponese ha avuto elementi di riferimento per la Cina dopo i viaggi di Deng in Giappone ma nel caso cinese il ruolo delle famiglie è trascurabile rispetto a quello delle grandi corporations giapponesi.

 

Concetto numero 2: il socialismo in economia di mercato non è un’invenzione cinese. 

Dal 1976 al 1978 durante l’interregno di Hua Guofeng tra la morte di Mao e il trionfo di Deng, la Cina inviò delegazioni di studio all’estero, in Ungheria, Jugoslavia e in altri paesi dell’Europa dell’Est per studiare i loro sistemi economici. 

Dopo la rottura con l’Urss a metà anni ’60, il riavvicinamento di Mao agli Usa in funzione antisovietica, il disastro organizzativo ed economico della Rivoluzione culturale che avevano lasciato il paese nel caos, la Cina, non potendo continuare sul modello sovietico e avendone intuito i limiti, era alla ricerca di modelli economici alternativi. 

Se gli esempi pratici dei sistemi-paese osservati nelle missioni all’estero servivano come base, a livello teorico c’erano dei riferimenti, come ad esempio Bucharin per l’Urss, o Ota Sik per la Cecoslovacchia(Vasap. Pag. 181), e in generale la Nep sovietica. 

La stessa Nep fu un modello che il giovane Deng vide direttamente coi suoi occhi.

Forse non molti sanno che Deng visse e lavorò giovanissimo in Francia, dove si formò politicamente ed entrò in contatto con le cellule estere del Pcc, lavorando sotto la direzione di Zhou Enlai a Parigi. Lì divenne uno dei membri del Comitato Esecutivo della Lega della Gioventù comunista. Nel ’24, questa struttura venne integrata direttamente nei ranghi del Pcc.

In seguito diresse la struttura di partito a Lione. Tornato a Parigi, nell’autunno del 25 organizzò i lavoratori della fabbrica della Renault dove lavorava.

Tuttavia i leader di queste cellule vennero in gran parte deportati indietro in Cina dal governo francese, dove governava il Guomindang.

Deng sfuggì di poco all‘arresto e dovette fuggire in Unione Sovietica.

Ma tra il 17 gennaio del 1926(a 22 anni)e il 12 gennaio del 1927 visse per un anno in Unione Sovietica, e studiò all’accademia Sun Yat sen, dove si formavano i quadri dei rivoluzionari cinesi e del Guomindang all’epoca dell’alleanza tra i due, prima di ritornare in patria. 

Deng era a quel punto già un quadro formato da sei anni di intensa attività politica (a 16 anni arrivò in Francia)ed era uno dei dirigenti più promettenti del gruppo che in seguito verrà definito dei rifugiati “francesi”, insieme a Zhou Enlai, che dopo il ’49 avrebbero avuto un ruolo di primo piano nella costruzione dello stato cinese.

Durante quell’anno Deng partecipava alle riunioni estere del Pcc a Mosca, prima che queste riunioni venissero interrotte, ed era a vent’anni già un rivoluzionario formato, disciplinato e abituato alla gestione di incarichi di lavoro politico.

Era a conoscenza della teoria economica ufficiale dell’Urss che in quel periodo era la Nep. I piani quinquiennali inizieranno solo nel 1928, dopo lo scontro interno in Urss.

Lenin era morto nel 1924 ma la Nep proseguì per altri quattro anni.

L’idea che la statalizzazione dei mezzi di produzione non dovesse essere totale poiché questo avrebbe tolto vitalità all’economia se effettuata in condizioni materiali di arretratezza(“il socialismo della povertà”) e che si dovesse lasciare maggiore libertà d’azione e iniziativa ai contadini rimasero impressi nella sua mente finché non mise quelle stesse idee in pratica in Cina nel 1978, e precedentemente negli esperimenti nel sud-ovest nel 1949-’52. (Ezra Vogel, Deng Xiaoping e la trasformazione della Cina).

 

Concetto numero 3: il socialismo cinese si basa su una proprietà pubblica collettiva/statale maggioritaria in cui vigono condizioni di lavoro molto migliori che nei settori marginali dell’economia. Questo modello ha ragioni storiche profonde.

Il fatto che la prima rivoluzione comunista, quella d’Ottobre, fosse avvenuta in un paese arretrato anziché nel punto più alto dello sviluppo capitalistico venne spiegata con la teoria dell’imperialismo, che scaricava all’estero le contraddizioni interne al sistema. 

Allo stesso modo la rivoluzione ci fu in paesi in cui la classe dirigente era arrivata al limite del proprio potere, sottoposta a sconfitte militari(Impero Zarista, Repubblica Cinese), rispettivamente da parte dei Tedeschi e dei Giapponesi, invasione del territorio, ecc…tutti elementi che hanno distrutto la catena di potere economico-sociale su cui si basava il potere di queste élites. C’è voluta una crisi totale di legittimità della classe dirigente e lunghi anni di lotta armata perché la rivoluzione potesse trionfare in Cina.

Di conseguenza ci si è ritrovati di fronte alla contraddizione di rivoluzioni avvenute in paesi arretrati, semicolonie, proprio per effetto della gerarchizzazione prodotta dall’imperialismo.

Dal punto di vista della teoria marxista e del materialismo storico non vi è nulla di più contraddittorio della costruzione di rapporti sociali avanzati a partire da un basso livello di sviluppo delle forze produttive. Il livello di sviluppo delle forze produttive determina e condiziona quello dei rapporti sociali di produzione.

Ecco che rapporti sociali molto avanzati di collettivizzazione e pianificazione come quelli del modello sovietico 1927-1989 si sono rivelati troppo avanzati per il livello di sviluppo delle forze produttive allora presente nel campo socialista.

 

Concetto numero 4: Cina e Urss dopo la rottura degli anni ’60 si sono fatte sul serio la guerra fredda, non si sono limitate alle polemiche a distanza. La Cina è stato l’ago della bilancia nella sconfitta finale dell’Urss, in specie nella guerra in Afghanistan.

A questo andrebbe aggiunto un discorso sulla politica estera sovietica alla quale era subordinata quella interna e lo schematismo ideologico, la mancata capacità di comprensione della forza della coalizione che negli anni ’80 si contrappose all’Urss in Afghanistan e che metteva insieme Usa, Europa Occidentale, Cina, Polo islamico, ecc… che spieghi, contestualizzandolo, le ragioni del crollo.

Tuttavia anche con una politica estera differente i limiti del modello sovietico sarebbero stati non meno evidenti. 

La differenza sta nel fatto che mentre il modello sovietico era più avanzato del livello di sviluppo delle forze produttive su cui si basava, quello sinovietnamita di mercato faceva un passo indietro, “scalava la marcia”, ed era coerente con il livello di sviluppo delle forze produttive cinesi del tempo.

 

Concetto numero 5: i cinesi sono in quella che definiscono “stadio primario del socialismo”

Quello che i cinesi chiamano “stadio primario del socialismo”, è il suo livello più basso, quella fase della transizione che mantenendo i caratteri fondamentali del sistema socialista compie quel lavoro di sviluppo che il capitalismo non può compiere perché ufficialmente abolito con la rivoluzione del ’49. 

In questo senso se “l’Imperialismo” di Lenin rispondeva alla domanda sul perché la rivoluzione c’è stata nei paesi arretrati, la “Teoria di Deng Xiaoping” e le riflessioni accademiche sul socialismo di mercato danno una risposta su come costruirlo in condizioni di arretratezza materiale. 

I risultati in termini di crescita complessiva delle forze produttive della Cina è sotto gli occhi del mondo.

La sua forza economica è la base dei Brics e il sostegno finanziario di molti paesi dell’America Latina e dell’Africa.

La politica estera cinese che è la base di sopravvivenza di molti governi nel mondo non allineati agli Usa ha a sua volta a catena come fondamento la forza della propria economia, che è frutto di questo modello.

Sulla predominanza del settore pubblico possiamo citare tra i tantquesto rapporto del governo americano del 2011 , che contiene tra l’altro vari indici sull’aumento dei salari nelle aziende pubbliche.

Come giustamente riporta Vasapollo nel suo Trattato, di per sé a livello astratto la proprietà pubblica o privata non è sinonimo di socialismo o di capitalismo. 

Tuttavia vediamo che la tendenza del neoliberismo è di privatizzare quanto più è possibile, di limitare ovunque la proprietà pubblica dei mezzi di produzione e del credito, di combattere ferocemente le nazionalizzazioni, ecc… 

Quindi nella realtà concreta la proprietà dei mezzi di produzione è l’espressione giuridica dei rapporti sociali di produzione prevalenti, e in questo caso la se la proprietà è pubblica o privata ad essere prevalente conta, eccome.

 

Concetto numero 6: la stragrande maggioranza dei cinesi non vive in condizioni di lavoro ottocentesche di sfruttamento

Bisogna avere ben chiaro la differenza tra il tasso di cambio yuan/dollaro, e dunque l’espressione monetaria in euro o dollaro dei salari cinesi, che fanno riferimento al potere d’acquisto di quei salari in Europa o negli Usa, e il reale potere d’acquisto di quei salari in Cina, il cosiddetto PPP (power purchase parity). Altrimenti continueremo a credere che i cinesi vengano pagati meno di 200 euro al mese e che questo spiegi lo sviluppo del paese.

I trentenni cinesi ormai guadagnano più dei trentenni italiani.

In questo caso le aziende statali hanno portato a regolari aumenti salariali rispetto all’inflazione, fanno molti meno profitti delle aziende private, pagano più contributi sociali, mantengono il capitale pubblico in patria, destinano i profitti a scopi sociali, ecc… 

Anche questo contraddice la visione della Cina come fabbrica mondiale dello sfruttamento, immagine così diffusa anche da noi che risulta quasi connaturata alla nostra concezione del Paese.

Nelle aziende statali e collettive vigono migliori condizioni di lavoro, forme di democrazia operaia, ecc…tutte cose queste totalmente lontane dalla nostra immagine di percezione della Cina con operai pagati 150 euro al mese (circa 1500 yuan, che hanno il potere di acquisto di 1500 euro in beni primari).

Si potrebbe parlare a lungo delle condizioni di lavoro differenziate e dei vari modelli di unità produttiva.

Un conto è la Haier, un conto è la Lenovo, un conto è la Foxconn.

 

Concetto numero 7: il socialismo di mercato si adatta bene alle condizioni dei paesi in via di sviluppo, ma non è un modello per l’Occidente, dove livelli di sviluppo delle forze produttive consolidati possono rendere superabili gli elementi mercantili

Questo non significa che il modello cinese sia generalizzabile. In Occidente, con livelli di sviluppo delle forze produttive più alto, forse è possibile passare direttamente a fasi più elevate, ma solo teoricamente, in cui il reddito è slegato dalla funzione lavorativa con scopi perequativi.

La contraddizione dell’imperialismo rende le rivoluzioni nell’Occidente avanzato quelle che forse temporalmente si avranno per ultime, dopo una fase di crescita economica delle periferie rivoluzionarie e il ridimensionamento economico dell’Occidente stesso. 

Questo contributo voleva essere solo uno stimolo e un indirizzamento al dibattito, ma è importante capire che l’esistenza delle contraddizioni è già prevista nel modello e viene considerata un rischio accettabile.

L’alternativa sarebbe stata l’isolamento e la semi-stagnazione.

Il modello in sé è coerente e intellegibile in modo relativamente semplice, e per l’importanza che ha la Cina, prima economia mondiale dal 2014 secondo la Banca Mondiale, non possiamo più esimerci dal riconoscerne le caratteristiche. 

Le implicazioni di tale riconoscimento per la visione che i comunisti hanno del mondo sarebbero di vastissima portata.

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