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La Fed nella trappola costruita con le proprie mani

Avete rotto il termometro ed ora non sapete più come misurare la febbre.

Le conferenze stampa della Federal Reserve, dopo le statutarie riunioni del Fomc (Federal Open Market Committee, o “esecutivo” della Fed), erano una volta l’occasione per sapere con certezza come stava andando l’economia Usa e quali sarebbero state le mosse della banca centrale Usa. Adesso sono diventate un festival dei “se…”, un campionario di incertezze che trasmette dubbi invece di informazioni sicure.

La seduta di ieri è quasi paradigmatica. Si trattava di capire se la Fed sarebbe andata avanti o no sul percorso deciso a fine 2015: graduale rialzo dei tassi di interesse (schiacciati per oltre sei anni a livello zero), come conseguenza di una graduale “ritorno alla normalità” dell’economia Usa. Ossia tasso di disoccupazione intorno al 6% (considerato chissà perché “fisiologico”) e inflazione intorno al 2%. Va ricordato infatti che per statuto la Fed – al contrario della Bce, incentrata solo sulle oscillazioni dei prezzi – deve tener d’occhio anche l’andamento dell’occupazione e dunque i salari (che retroagiscono sui prezzi).

Se quella era l’attesa, è rimasta tale. Il presidente, Janet Yellen, ha sciorinato una serie di riflessioni anche interessanti, ma dominate dall’incertezza assoluta a dispetto della volontà esplicita di rassicurare: le «forze economiche positive prevalgono sulle negative». Bella affermazione, ma è sparito al tempo stesso qualsiasi riferimento a prossimi rialzi dei tassi di interesse; quindi, perlomeno a breve, non ci saranno.

Per giugno, ormai, non se lo aspettava più nessuno, visto che a maggio l’occupazione statunitense non è cresciuta affatto (segno di un’economia in forte rallentamento). Ma si voleva sapere se almeno per luglio o settembre (date delle prossime riunioni del Fomc) ci si doveva preparare a qualche novità.

Nulla di nulla. «La situazione complessiva del mercato del lavoro è stata abbastanza positiva. In questo contesto – ha spiegato la Yellen – i dati di venerdì sono stati deludenti». E quindi «Avremo bisogno di osservare gli sviluppi sul mercato del lavoro con attenzione», anche se «non si dovrebbe dare troppa importanza ai dati di un singolo mese». Pare di sentire il Uòlter Veltroni di qualche anno fa, alla sagra del “ma anche”…

La luce non si accende neanche guardando ai salari, perché «i redditi medi orari sono aumentati del 2,5% negli ultimi dodici mesi, un po’ più rapidamente che negli anni recenti: è un’indicazione benvenuta che la crescita dei salari potrebbe finalmente accelerare». Se crescono i salari, in teoria, anche i prezzi finali delle merci possono salire un po’, e dunque anche l’inflazione, che dovebbe incoraggiare gli investimenti privati (se i prezzi non sono previsti in crescita, nessuno investe, perché altrimenti potrebbe rimetterci).

E invece questo non è accaduto, anzi… «Se le aspettative di inflazione si stanno davvero muovendo in basso, questo potrebbe mettere in dubbio l’ipotesi che l’inflazione tornerà al 2% così velocemente come mi aspetto».

Gli indicatori, insomma, non indicano più con esattezza.

Va ricordato che la scienza statistica soffre per definizione una deformazione “politica”, o comunque “soggettiva”, perché i criteri vengono stabiliti prima di essere applicati a un fenomeno. Sono insomma parecchio arbitrari, più che “oggettivi”, anche se poi li si usa come se fossero solidi quanto le leggi della fisica.

E negli Stati Uniti, come adesso in Europa, “per convenzione” si definisce occupato chiunque abbia lavorato almeno un’ora nella settimana in cui avvengono le rilevazioni degli istituti di rilevazione. Così come, “per convenzione”, si definiscono disoccupati soltanto coloro che si registrano presso gli uffici di collocamento (o equivalenti). Mentre le masse sterminate di persone che non cercano lavoro per sopraggiunta disperazione, o lo cercano in altro modo (conoscenze, raccomandazioni, lavoro nero, ecc), vengono annoverate nel limbo degli inattivi.

È abbastanza ovvio, dunque, che criteri così elastici e permissivi, inventati per diffondere ottimismo (si può dire, come negli Usa, che la disoccupazione ufficiale è al 5%, dunque c’è la “piena occupazione”, anche se i senza lavoro reali sono oltre il 30%), alla lunga diventano assolutamente inservibili come “indicatori” di fenomeni economici reali. Persino per chi li ha inventati (e in questo la Fed ha certamente un peso, storicamente).

Solo così di può capire l’imbarazzo di un presidente di banca centrale, della prima potenza economica planetaria, costretta a chiedersi: «È il ritmo notevolmente ridotto delle assunzioni ad aprile e maggio un segnale di un persistente rallentamento di tutta l’economia? O gli aumenti mensili dei posti di lavoro torneranno al solido ritmo tenuto nel 2015 e all’inizio di quest’anno? Gli ultimi dati sul tasso di disoccupazione indicano che siamo tornati alla piena occupazione, o la crescita relativamente lenta dei salari segnala che c’è ancora debolezza? Io e i miei colleghi continueremo a confrontarci con queste e con altre questioni collegate».

Il problema è che la Fed è organismo operativo, deve prendere decisioni che condizionano tutta la struttura produttiva, i mercati finanziari, le dinamiche economiche globali. Non è un think tank che studia, riflette, consiglia, ma non deve decidere nulla. Deve agire per tempo, dopo aver certamente ben riflettutto; ma deve agire e fornire orientamenti certi.

Il termometro è stato rotto per nascondere meglio sotto il tappeto i dati macroeconomici negativi. Ora il tappeto presenta più gobbe di un paesaggio alpino, il cane che ci vive sopra (l’economia) inciampa di continuo, cammina come un ubriaco febbricitante… ma nessuno sa più fare uno sceening affidabile. Tanto meno la Fed…

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