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Le agenzie di rating coccolano il Governo: i miracoli dell’austerità

Come ciclicamente accade, in questi giorni sono tornate al centro del dibattito pubblico le agenzie di rating, poiché due di esse hanno aggiornato il giudizio che danno dei titoli del debito pubblico italiano. Queste agenzie, infatti, sono deputate ad elaborare delle valutazioni (veri e propri voti) sull’affidabilità dei debitori, privati o pubblici che siano: maggiore è il ‘rating’, maggiore in teoria la probabilità che il debito sarà onorato a scadenza.

Dalle parti di Standard & Poor’s, una delle quattro principali agenzie di rating con sede a New York, si staranno preparando a festeggiare Halloween. Il recente giudizio sul debito pubblico italiano ricorda molto la classica scena: ci dai un dolcetto o ti facciamo uno scherzetto? Sembra proprio che il Governo italiano abbia preferito la prima opzione, perché questo giro di valutazioni da parte delle agenzie di rating Moody’s e Standard & Poor’s non ha riservato scherzetti all’Italia, anzi. Dal clima di guerra che si respirava alla vigilia di questi giudizi sul debito pubblico italiano, siamo passati addirittura alle effusioni: Moody’s che “accarezza” il Governo ed il premier Conte che pubblica un comunicato in cui esprime approvazione il giudizio di Standard & Poor’s.

Per capire da dove sgorghi questa apparente sintonia tra il Governo populista ed i mercati dobbiamo fare un passo indietro e chiederci due cose: quale ruolo hanno le agenzie di rating e perché mai avrebbero deciso di risparmiare l’Italia da un giudizio negativo.

Il ruolo delle agenzie di rating proviene dalle regole che disciplinano il funzionamento dei principali mercati finanziari. La salute di ogni singola banca dipende, tra le altre cose, dalla possibilità di reperire all’occorrenza denaro liquido in breve tempo senza dover dilapidare il proprio patrimonio, ed il canale principale attraverso cui le banche ottengono liquidità sono i prestiti della banca centrale: nel caso europeo, una qualsiasi banca può ottenere liquidità in prestito dalla Banca Centrale Europea (BCE) in maniera relativamente agevole, scambiandola con titoli. Non tutti i titoli, però, vengono accettati dalla banca centrale per questo tipo di operazioni: solo i titoli caratterizzati da un livello sufficientemente elevato di rating, il livello ‘investment grade’, possono garantire l’accesso alla liquidità illimitata dell’autorità monetaria. Ecco perché le agenzie di rating sono così importanti: i titoli del debito pubblico italiano vengono acquistati sui mercati finanziari anche perché possono essere utilizzati, all’occorrenza, come contropartita per la liquidità di cui la banca potrebbe avere bisogno; liquidità che la banca centrale fornirà nell’ambito delle cosiddette operazioni di rifinanziamento. Tuttavia, nel caso in cui tutte e quattro le principali agenzie di rating (Moody’s, Standard & Poor’s, Fitch e DBRS) dovessero declassare il Paese sotto il livello di ‘investment grade’, la maggior parte degli investitori istituzionali (banche, fondi, assicurazioni), che rappresentano la parte più consistente dei detentori di debito pubblico, perderebbe qualsiasi incentivo a detenere nel proprio portafoglio il nostro debito pubblico. Nel contesto attuale, cioè in assenza di una banca centrale disposta a sostenere il debito pubblico in caso di difficoltà, questo scenario sarebbe un disastro: i titoli del debito pubblico detenuti dalle banche private verrebbero venduti in massa sui mercati, producendo un crollo delle quotazioni ed un conseguente rialzo degli interessi che finirebbe per risultare insostenibile per le casse del Tesoro. Per questa ragione, il rating al di sotto del livello ‘investment grade’ viene definito ‘junk’, immondizia: se un titolo finisce sotto questa etichetta, gli investitori istituzionali che lo detengono si affrettano a venderlo ed il suo valore ragionevolmente crolla. L’Italia si trova oggi, nella scala di valori rappresentata dal rating, ad un grado dal livello immondizia per Moody’s e due livelli prima dell’abisso per le altre tre agenzie: siamo ancora relativamente lontani dalla soglia di pericolo, perché basta anche una sola agenzia di rating che ci giudichi ‘investment grade’ perché la BCE continui ad accettare dalle banche commerciali i nostri titoli del debito pubblico come garanzia per i suoi prestiti. Tuttavia, qualsiasi passo verso quella soglia produce danni concreti: molte banche e fondi pensione, ad esempio, hanno l’obbligo statutario o la prassi di vendere i titoli che si avvicinano al livello ‘junk’, per tenere il proprio portafoglio al riparo da pericoli. Per questo la tornata di giudizi sull’Italia era molto attesa e temuta: due su quattro agenzie di rating dovevano rivedere il proprio giudizio mentre il Governo alzava i toni del confronto con l’Europa sul DEF e mentre le più autorevoli previsioni macroeconomiche convergevano su una contrazione del tasso di crescita previsto per questo e per i prossimi anni.

Il giudizio delle agenzie di rating si esprime sotto forma di un giudizio e di un ‘outlook’ o scenario previsionale: il giudizio riguarda il presente mentre l’outlook si concentra sulle prospettive di medio e lungo termine. In molti ritenevano che la scelta del Governo di eccedere il disavanzo di bilancio indicato dall’Europa portasse al declassamento da parte di Moody’s e di Standard & Poor’s, e quindi ad una immediata revisione al ribasso del giudizio sulla solvibilità, e che le previsioni di un peggioramento dell’economia italiana, sempre più insistenti, portassero anche ad un peggioramento dell’outlook, che prelude ad un prossimo nuovo peggioramento del rating. Se le due agenzie di rating avessero effettivamente peggiorato sia il rating che l’outlook, avrebbero fatto un brutto scherzetto al governo, spingendo numerosi operatori finanziari a svendere i titoli del debito pubblico italiano. Uno scenario, in tal caso, effettivamente da incubo.

Così non è stato. Moody’s ha ridotto il rating lasciando l’outlook a livello ‘stabile’, mentre Standard & Poor’s ha lasciato invariato il rating limitandosi a ridurre l’outlook da ‘stabile’ a ‘negativo’. Perché allora, tutto sommato, tanta clemenza mentre tutti ci raccontano di un Governo ai ferri corti con i poteri forti? Quale sarebbe, in altri termini, il dolcetto che il Governo ha speso per convincere i mercati alla tregua?

La scelta delle agenzie di rating di risparmiare all’Italia la tempesta finanziaria deve essere letta come parte integrante della trattativa con cui la nuova maggioranza giallo-verde si sta provando ad accreditare quale forza responsabile e affidabile per la gestione ordinata del progetto politico neoliberista. Il Governo sa che deve conservare il consenso almeno fino alla prossima scadenza elettorale, le elezioni europee del maggio prossimo, e per questo ha deciso di alzare i toni con l’Europa sul DEF. Muovendosi sul filo del rasoio, i giallo-verdi hanno dunque disegnato una manovra di bilancio che rispetta il perimetro massimo consentito dall’Europa, il fatidico disavanzo del 3%, ma al tempo stesso non rispetta l’indicazione di tenersi ben al di sotto di quel limite. In risposta a questo timido segnale di insubordinazione, l’Europa ha immediatamente alzato il livello di guardia, bocciando in prima battuta il disegno di legge di bilancio reso pubblico a metà ottobre. Sembrerebbe un braccio di ferro, ma non lo è. Il Governo vuole dare l’impressione di stare lottando contro l’Europa per bieche ragione elettorali, per conservare quel consenso che serve a cementare questa nuova classe dirigente e questa inedita maggioranza parlamentare. Ma al tempo stesso il Governo – che si regge sulle spalle di due partiti di sistema, che non hanno come priorità la soddisfazione dei bisogni della maggioranza della popolazione – non ha alcuna intenzione di smarcarsi dalla linea neoliberista imposta dall’Europa e dai mercati: non vi è alcuna volontà politica di rottura della gabbia dell’austerità che sta mettendo in ginocchio l’Italia. Al netto degli strepiti, la coalizione giallo-verde conferma infatti, per l’ennesima volta, che senza una visione radicalmente alternativa di sistema ogni presunta velleità politica di cambiamento si riduce a gioco delle parti e mera cosmesi propagandistica. Le dichiarazioni dei leader di governo, al riguardo, sono illuminanti. Mentre ancora si discuteva dei numeri della manovra, il Salvini delle dichiarazioni bellicose dimostrava inedita prudenza, parlando della necessità di dotarsi di una “ruota di scorta”, ovvero di un piano di revisione del disavanzo di bilancio da mettere in pratica in caso di tempesta finanziaria, per calmare i mercati. Gli faceva eco il temutissimo Ministro Savona, uno dei primi a dire che qualora lo spread dovesse superare quota 400 bisognerebbe ritoccare la manovra per far contenta l’Europa. I piani del Governo per cavarsela in questa delicata missione, rassicurare l’Europa conservando il consenso di chi dall’Europa si vorrebbe liberare, sembrano trapelare dalle più recenti dichiarazioni di Di Maio, che sulla manovra ha detto: “Io non credo si debba parlare di cambiarla, soprattutto sul 2,4% di deficit. Poi è il Parlamento che discute e decide che politiche fare”. Che significa: noi continueremo a fare la voce grossa con l’Europa, sperando che gli italiani credano davvero che siamo qui per difenderli dalla precarietà e dall’austerità imposte dall’Europa, ma poi lasceremo al Parlamento il lavoro sporco di ritoccare i numeri della manovra nel percorso di approvazione che terminerà solo a dicembre. La manovra è a tutti gli effetti una legge, la legge di bilancio, per cui è pleonastico dire che sarà il Parlamento ad occuparsene. Piuttosto, Di Maio voleva dire che il Parlamento si incaricherà di approvare una manovra diversa da quella presentata dal Governo: più coerente con i vincoli europei e dunque ancora più dura contro i lavoratori e lo stato sociale. Ecco perché tanta clemenza da parte delle agenzie di rating.

 * Coniare Rivolta è un collettivo di economisti – https://coniarerivolta.org

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