Ci sono molti modi di reagire ai venti di crisi economica, ma in fondo di riducono a sostanzialmente due. Un approccio “espansivo” oppure uno “restrittivo”, preoccupato di tener sotto controllo le variabili finanziarie (il debito pubblico, in primo luogo) anche a costo di aggravare la recessione.
Ma anche nel sostenere una linea espansiva si può agire in modo molto diverso. Dipende dagli obbiettivi che si vogliono perseguire e dagli strumenti che si mettono in campo.
In questo momento, Usa, Cina ed Unione Europea perseguono tre approcci molto differenti, che riflettono sia la posizione occupata nel sistema globale, sia gli orientamenti teorici dei diversi gruppi dirigenti. Oltre che differenti livelli di contraddizioni interne.
Negli Usa, lo scontro continuo tra Trump e le varie componenti del vecchio establishment sta in questo momento scaricando sulla Federal Reserve una nuvola di problemi che certo non giovano alla sua credibilità come regolatrice della politica monetaria. Il presidente della Fed, Jerome Powell (peraltro scelto dallo stesso Trump), sta realizzando il programma di inalzamento dei tassi di interesse deciso qualche anno fa da Yanet Yellen, dopo quasi un decennio di tasso zero e iniezioni di liquidità per sostenere sia l’economia reale (e unque l’occupazione statunitense) che i mercati finanziari, devastati a lungo dalle conseguenze dell’esplosione della bolla dei mutui subprime, che aveva innescato quella dei “prodotti derivati”, il fallimento di moltissime banche e il grande botto di Lehmann Brothers, quarta banda d’affari del pianeta.
Trump – interprete dell’indebolimento pluridecennale degli Usa come potenza industriale – ha aperto la guerra dei dazi e con la Cina e l’Unione Europea, e dunque pretende una politica monetaria più in linea con le esigenze dell’economia reale “nazionale”. Mentre la Fed sembra muoversi ancora nella logica del player monetario globale, ruolo ricoperto con grande forza (non sempre con lucidità) da almeno 30 anni a questa parte. In quella che è stata definita l’era della “seconda globalizzazione” (la prima, su scala ovviamente minore, aveva riguardato la fine ‘800 e si era chiusa con due guerre mondiali a distanza di venti anni). E ovviamente che la principale superpotenza viva contraddizioni pesanti sugli orientamenti da dare alla propria azione è di per sé un elemento di instabilità che aggrava le tensioni nascenti intorno all’obbiettivo rallentamento dell’economia mondiale.
La reazione cinese ai venti di crisi e guerra commerciale è radicalmente diversa. Alla vigilia di Natale i responsabili del Ministero delle Finanze cinese e dell’Amministrazione Statale delle Imposte hanno presentato le misure che entreranno in vigore dal primo gennaio. Un pacchetto colossale di stimoli fiscali che aumenteranno immediatamente il reddito disponibile per moltissime fasce sociali. I contribuenti potranno godere di detrazioni aggiuntive in 6 diversi ambiti: istruzione dei figli, istruzione continua, assistenza medica per le malattie gravi, interessi sul mutuo per la casa o affitto di abitazioni, e sostegno agli anziani.
Se ci fate caso, è l’esatto opposto di quanto avviene in Italia e in genere nell’Unione Europea, dove si vanno rapidamente eliminando le detrazioni per assicurare maggiori entrate agli stati finalizzate… alla riduzione del debito pubblico.
Questo pacchetto di stimoli fiscali si aggiunge al consueto aumento annuo del salario minimo, previsto ancora una volta intorno al 15%. Di questo passo i salari cinesi si vanno rapidamente avvicinando a quelli europei. Il che, se segna una minore competitività di prezzo delle merci prodotte nel Celeste Impero, rafforza però enormemente i consumi interni e dunque il potenziamento di un mercato che per crescere non dipende dalle esportazioni (al contrario di quanto va imponendo da anni la Germania a tutta la Ue, con un modello mercantilista fondato sulla deflazione salariale in tutto il Vecchio Continente), e dnque è in grado di risentire molto meno delle tempeste che si vanno preparando sui mercati internazionali.
Nella stessa direzione, peraltro, vanno altre misure immediatamente operative, come un’ulteriore spinta su nuovi progetti infrastrutturali, tra cui 50 miliardi di dollari in nuove metropolitane e treni leggeri. Un piccolo raffronto, solo per aiutarvi a capire: nella manovra del “governo del cambiamento” italico sono previsti due miliardi di “tagli automatici” alla pesa pubblica nel caso – ormai certo – di “deterioramento del quadro economico”: tra cui spiccano i 300 milioni in meno alla mobilità locale.
Pechino, insomma, si muove per contrastare anticipatamente i venti di crisi, cercando di evitare “iniezioni di liquidità” a pioggia, che premiamo i circuiti finanziari facendo gonfiare bolle speculative che, quando esplodono, fanno danni anche e soprattutto all’economia reale. E si muove facend aumentare il reddito disponibile per la fasce medio-basse della popolazione, invece di strizzarne via fino all’ultima goccia.
La strategia seguita fin qui dall’Uniona Europea, insomma, non sembra altrettanto efficace e tantomeno “moralmente equa”. E non siamo soltanto noi a dirlo, ormai.
Un editoriale di Milano Finanza, stamattina, suona il de profundis per la politica seguita dalla Bce fin dalla sua istituzione, ma anche e soprattutto per la gestione “non convenzionale” dell’altrove celebratissimo Mario Draghi: “Dopo il Qe non c’è una strategia”.
“Qe” sta per quantitative easing, ovvero le iniezioni di liquidità aggiuntive al tasso di interesse zero, messe in atto dalla Bce negli ultimi anni e in scadenza il 31 dicembre. In totale, si tratta di 2.563 miliardi “nominali”, creati dal nulla, con cui sono stati acquistati titoli di stato, asset privati, “prodotti derivati”, per tenere sotto controllo la tendenza alla deflazione (diminuzione dei prezzi) e riportare l’inflazione al livello ritenuto “naturale”: vicino ma non superiore al 2% annuo.
“Obbiettivo fallito”, scrive Milano Finanza, visto che l’inflazione viaggia intorno all’1,1% e risulta assai più sensibile alle variazioni del prezzo del petrolio – unica merce, insieme al lavoro umano, che entra nella formazione del prezzo di tutte le altre – che non agli stimoli monetari.
L’economia non ha reagito. Le aziende “pur di vendere, si sono spesso ridotti i margini, rinunciando a trasferirei maggiori costi al consumatore; piuttosto si tagliano i salari”. Ossia si produce deflazione strutturale. Solo gli opinion maker strapagati possono ritenere che sia meglio avere una minore capacità di consumo (un mercato interno depresso) pur di essere “competitivi sul prezzo” con altri paesi. Un po’ perché, comunque, ci sarà sempre – specie nei paesi meno sviluppati – qualcuno che potrà offrire manodopera a un prezzo anocra più basso; un po’ – o soprattutto – perché un mercato interno debole non può ammortizzare gli choc esterni, da qualsia motivo siano causati.
E qui la critica a Draghi diventa addirittura “tecnica”: “la nuova moneta – creata dalla Bce con il Qe - entra nel sistema economico dall’estero, oppure attraversi il canale bancario, ovvero attraverso la spesa pubblica finanziata in disavanzo da nuova moneta. L’acquisto di titoli del debito pubblico con il Qe, che è stato effettuato sul mercato secondario e per di più su piazze finanziarie estere, non poteva oggettivamente raggiungere l’obbiettivo previsto”. La nuova moneta, insomma, non è entrata nel circolo dell’economia reale, ma è rimasta nei circuiti finanziari. Ne hanno beneficiato le banche, certamente, e per un po’ anche i conti pubblici (minori interessi sul debito, quindi anche abbassamento dello spread). Ma ora la Bce resta senza altre strategie. Il Qe doveva servire a ricostruire la “normalità”, e terminare a obbiettivo raggiunto. Finisce invece senza aver ottenuto il risultato e soprattutto mentre sta partendo un’altra grave crisi finanziaria (il crollo di Wall Street alla vigilia di Natale – -2,9% – e quello di Tokyo stanno lì ad annunciarlo).
La Bce, oggi, “non ha margini di manovra sulla base degli strumenti ordinari per contrastare una nuova recessione o, peggio, una possibile crisi finanziaria. Il Piano Juncker si è dissolto nel nulla, perché implicava il finanziamento da parte di privati di iniziative in grado di offrire rendimenti certi agli investitori (che infatti sono rimasti a guardare, ndt). Le grandi reti transeueropee sono in stallo, i piani di transizione tecnologica ed ecologica stentano ad affermarsi, basati come sono su costi crescenti per le imprese e i consumatori (chiedere a Macron e ai gilet jaunes per delucidazioni, ndt). Lo smantellamento progressivo delle iniziative geopolitiche e industriali su cui era fondata la Comunità Europea, la Ceca e l’Euratom, e rispetto a cui rimangono unici esemplari la Bei e l’Esa, dovrebbe essere rcionsiderato alla luce delle nuove esigenze”.
Ma gli errori sono stati infiniti: “Se solo la Bce avesse acquistato bond di queste orami scomparse istituzioni europee, o almeno quelli del Piano Juncker, ci sarebbero stati quegli investimenti infrastrutturali e innovazione capaci di creare occupazione e sviluppo. Usare risorse colossali, com’è avvenuto per il Qe, senza avere un minimo di strategia complessiva circa gli indirizzi e gli obiettivi, al di là della scusa dell’inflazione, è costato all’Europa ben più degli oltre 2.500 miliardi: sono stati persi tre anni cruciali.”
Invece Draghi e l’intero board di Francoforte hanno scelto di assecondare le priorità fissate dall’ordoliberismo teutonico: “La strategia della Bce, con una politica monetaria accomodante, ha cercato solo di rendere meno dura la politica di bilancio restrittiva decisa con il Fiscal Compact, indorando appena la pillola delle riforme strutturali fondate sulla deflazione salariale, giacché il lavoro è l’unica merce che non ha una quotazione uniforme sui mercati globali”.
Fanno ridere le elucubrazioni che sentiamo dai “nostri” parlamentari, che governano o fingono di opporsi sulla base di assunti economici scritti solo nei manuali. E fa impressione veder ammettere – su un quotidiano economico – l’ammissione che tutte le politiche dell’Unione Europea, almeno negli ultimi 30 anni, si sono fondate sulla volontà di abbattere i livelli salariali, “unica merce che non ha una quotazione uniforme sui mercati globali”. Una strategia perdente, come si è visto, non a caso diametralmente opposta a quella dei cinesi; ma soprattutto inefficace a raggiungere i risultati previsti dai trattati.
“In questo sta il fallimento del Trattato di Lisbona, che risale pur esso al 2008: l’Europa ambiva ad essere l’area più dinamica del pianeta, con gli oltre 500 milioni di cittadini ad elevata scolarizzazione, coesione sociale e comuni radici storiche e culturali. È diventata invece un’area ad elevata conflittualità dal punto di vista istituzionale, politico e sociale, tra Brexit, Gruppo di Visegrad, sovranismi vari e Gilet Jaune”.
L’applicazione della medesima “medicina” a pazienti con caratteristiche molto diverse può sorprendere solo un imbecille senza speranze. E infatti, scrive ancora Guido Salerno Aletta, “L’errore della politica monetaria della Bce è stato la non discriminazione degli interventi, la fideistica convinzione della capacità del mercato di autoregolarsi, trascurando le profonde differenze tra le varie aree territoriali dell’Europa ed i diversi settori.”
Alla fin fine, il Qe si è rivolto nell’ennesimo – stratosferico – regalo all’economia tedesca: “è stata la Germania che ne ha beneficiato di più, sia per la svalutazione dell’euro verso il dollaro che ne è conseguita, e che ha fatto aumentare ulteriormente il suo saldo commerciale extra-Ue, importante in un momento di bassa crescita europea, sia per aver determinato un rendimento negativo sui titoli del debito pubblico tedesco, collocato prevalentemente all’estero. Sono stati i risparmiatori stranieri, tra cui probabilmente non pochi italiani, ad aver contribuito alla significativa riduzione del debito tedesco, prestando più denaro di quanto non ne incassino per l’investiment”.
I “teorici dell’austerità” hanno insomma fatto man bassa del risparmio altrui, nel mentre li fustigavano – con le decisioni della Commissione Europea – perché incapaci di ridurre il proprio debito pubblico (su cui pagano annualmente per interessi superiori alle spesa per istruzione, come in Italia). E mentre, contemporaneamente, ridisegnavano la catena del valore europea intorno al proprio sistema industriale.
Anche le tensioni Nord/Sud italiane, malamente accroccate nel governo gialloverde, hanno questa radice, come rileva Giuseppe Masala: “Il Nord Italia è inserito (in posizione subalterna, al pari della Cechia, dell’Ungheria, della Romania, della Polonia ecc.) nella global chain value tedesca. In questa posizione, ed in continua lotta con gli altri paesi subalterni inseriti nella catena globale del valore teutonica, per competere non può fare altro che pretendere di tenersi tutte le risorse economiche. Ciò significa inesorabilmente – come di fatto sottolinea Villone – la completa distruzione del Sud e la sua magrebinizzazione ridotto a concorrere con i paesi del sud del mediterraneo per attrarre flussi di turisti e di anziani in cerca di ospizio dall’Europa Core e per esportare derrate alimentari (ovviamente verrà indorata la pillola con la retorica del menga dell’’agroalimentare di qualità’)”.
Senza esplosioni sociali in grado di imporre svolte politiche radicali a paesi di rilievo (la Francia si sta portando avanti col lavoro, grazie alla mobilitazione dei Gilets Jaunes), il destino appare segnato: “Avete visto in Ungheria l’approvazione della cosiddetta ‘Legge Schiavitù’ che tante proteste ha generato? Tra cinque anni massimo tutti i paesi che fungono da contoterzisti dei tedeschi dovranno adeguarsi alle regole della virtuosa Ungheria, pena perdere aziende che delocalizzano nel paese magiaro. Insomma, i paesi contoterzisti si fanno una guerra spietata per abbassare i costi di produzione riducendosi a nuova Cina per la Germania che sta in cima alla catena globale del valore creata all’interno della UE.
Dall’altro lato poi c’è da dire che altri paesi fanno dumping fiscale rubando entrate ai paesi deboli che non possono abbassare le imposte. Ogni riferimento a Lussemburgo e Olanda non è puramente casuale”.
Ce n’è abbastanza per concludere che la “diversità di approccio” tra le tre più grandi arcoaree continentali sviluppate – Usa, Cina, Unione Europea – sta velocemente ponendo le basi per risultati economicamente e socialmente opposti. Il benessere sociale consolida il consenso (Cina); cercare di “proteggere” il proprio mercato interno è un tentativo quasi disperato di ricostruire il consenso che si è andato perdendo con il vecchio establishment (gli Usa). Poi c’è questo strano mostro dell’Unione Europea, in cui le virtù dell’”austerità” stanno sconquassando in pochi anni un quadro costruito pazientemente in sette decenni. Gli scricchiolii si moltiplicano (dalla Brexit alla fine dell’era Merkel, passando per la rapida estinzione di “giovani leoni europeisti” come Renzi e Macron); e stanno diventando scosse sismiche.
Su quale sia l’imperialismo più debole, insomma, non è lecito nutrire dubbi. Su quale sia il nemico da combattere, per noi che viviamo in questa parte del mondo, neppure. A meno di non volersi trasformare – come i socialisti di inizio ‘900 – negli strenui difensori del “proprio” imperialismo. Contro le propria base sociale…
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