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Basta con “Prima il Nord”. O l’Italia guarda a Mediterraneo e Asia o muore

Rendetevi conto che già a gennaio 2020 eravamo ancora sotto di 5.3% punti di Pil rispetto al 2008. In pratica, grazie ai vincoli europei e alle politiche di austerità, in dodici anni il Paese non era riuscito neanche a recuperare la posizione occupata al momento dell’esplosione della bolla speculativa poi ricordata come “fallimento di Lehmann Brothers” (la quarta banca d’affari del mondo).

Se davvero crolliamo quest’anno dell’11% ci metteremo, con lo stesso ritmo, almeno 15 anni per recuperare il 2008. Quindi, ben che vada, nel 2035 avremmo il Pil del 2008. Oltre un quarto di secolo buttato via, senza nemmeno la scusa di un forte contrasto da parte di lavoratori e sindacati…

Devono essere banditi i Bonomi, i Sala, i Bonaccini, gli Zaia, tutti i media ed è immediatamente necessario un ricambio radicale, dopo 26 anni, della classe dirigente.

Altrimenti non se ne esce.

Unica soluzione percorribile: riduzione dell’ orario di lavoro e reflazione salariale, diretta e indiretta. Devono essere colpiti i profitti che negli ultimi decenni si sono trasformati in rendita finanziaria – non in ivestimenti produttivi – parcheggiata in genere all’ estero, spesso nei paradisi fiscali (anche europei).

Capitali che non servono a niente e nessuno nel Paese, ma in forza dei quali si sono immolati i salari.

“Prima il nord” significa questo, continuare con questa politica. Continuare col drenaggio di risorse dall’economia reale (i profitti che non rientrano come investimenti) per gonfiare portafogli offshore.

Il privato non ce la fa, spesso ha fallito, e quando pure barcolla è mantenuto in piedi dalle banche centrali. Gli “offertisti” (i macroeconomisti liberisti, fin qui egemoni) devono lasciare spazio ai “reflazionisti” (in genere keynesiani o giù di lì, genericamente etichettati come “non ortodossi”).

E bisogna guardare al Mediterraneo e all’Asia, dove c è domanda, si fanno figli e si costruiscono un futuro.

Lo scenario funereo degli ultimi decenni deve lasciare spazio alla voglia di vita dei proletari, che chiedono un lavoro, un salario adeguato e proiettarsi sul futuro.

Furono protagonisti nei decenni passati, ne beneficiarono le arti e la cultura.

Da 26 anni abbiamo la morte capitalistica e non si produce né nuova ricchezza né cultura.

Hanno fatto un deserto e lo hanno chiamato pace.

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