In prima pagina stamane sul Corriere della Sera il crollo nel secondo trimestre dell’economia americana.
Il giornale di via Solferino intervista il noto politologo Ian Bremmer, il quale sostiene che la crisi rigurda tutti, anzi gli Usa hanno più risorse degli altri, e durerà anni.
Stanotte è invece uscito il dato del Pmi manifatturiero cinese, che cresce a luglio dal 50,9 al 51,4. E’ arrivata l’ora che intellettuali, accademici, uomini di cultura in Occidente, se ce ne sono, si pongano degli interrogativi. Ci sono almeno due modelli economici alternativi, e quello occidentale mostra crepe vistose.
L’assetto liberista degli ultimi 45 anni ormai volge al termine, procastinarlo, in maniera sempre più feroce per le classi lavoratrici, è inutile e dannoso.
Occorre ripensare al ruolo del pubblico nell’economia, come nel dopoguerra (a proposito, stamane Milano Finanza parla di “scenario da dopoguerra”), occorre assumere milioni di persone nella sanità, nell’istruzione, nei trasporti, occorre una politica di edilizia pubblica recuperando l’immenso patrimonio abitativo lasciato in macerie.
Ma soprattutto, dopo decenni, è necessario ridurre l’orario di lavoro per tutti per redistribuirlo e aumentare i salari. Basta con le politiche piratesche di rubare quote di mercato nei mercati mondiali, tutti si focalizzino sul mercato interno, soprattutto in Europa, vero buco nero dell’economia mondiale.
Dal dopoguerra gli Usa hanno fatto da spugna per i prodotti di tutto il mondo attraverso il beneficio del predominio del dollaro e aumentando enormemente i debiti esteri. Quest’epoca è finita. Gli Usa sono scoppiati.
Bmw – per fare un esempio – dovrebbe vendere alla classe media tedesca, rianimandola, cosi come Fiat e altri.
La Cina ha ampliato in questi decenni la fascia di classe medio bassa, rendendola capace di assorbire buona parte della produzione industriale grazie a un costante e rapido aumento dei salari.
E lo ha fatto con la pianificazione economica, che pure paesi come Francia e Italia avevano assai prima della stessa Cina.
Se gli intellettuali, gli uomini di cultura, gli accademici non pongono queste problematiche, anche in chiave di protezione dell’ambiente, che è tutt’altra cosa del “capitalismo verde” si andrà verso il baratro.
Un amico ieri sera mi diceva: “non vedo come prospettiva che la guerra”.
Se non parlano la Storia li condannerà.
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