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C’era una volta l’egemonia statunitense…

Guardare le cose dal cortile di casa è confortevole, ma non permette di capire alcunché su come sta cambiando il mondo. Lo diciamo spesso, perché il provincialismo culturale o addirittura informativo della cosiddetta “sinistra” ha raggiunto livelli superati solo dalla destra fascioleghista, costitutivamente incapace di cogliere le dinamiche mondiali.

Per questo, nel nostro lavoro di informazione-formazione di una “cultura collettiva” comunista, ricorriamo spesso ai contributi più illuminanti che vengono prodotti in campo avversario. E i giornali economici – per la loro funzione di “orientamento” degli investitori – sono obbligati a dare informazioni strutturate decisamente meno taroccate di quelle che appaiono su Repubblica et similia.

Sulla tempesta che sta colpendo gli Stati Uniti, qualche giorno fa, abbiamo ripreso il punto di vista – molto pessimistico – di Stephen Roach sui destini del dollaro (uno dei pilastri dell’egemonia Usa).

A conferma indiretta, oggi Milano Finanza ospita un’analisi forse anche più “definitiva”, per mano di Maurizio Novelli, manager del Lemanik Global Strategy Fund, un fondo di investimento svizzero su mercati mondiali. Non un “teorico” della finanza, insomma, ma un operatore sul campo, che guarda alle tendenze attraverso indici aggiornati in tempo reale e deve decidere cosa fare dei miliardi che gestisce.

Fa effetto, insomma, leggere da un personaggio del genere – certo non sospettabile di simpatie marxiste – che “Il Covid ha travolto il modello economico degli Usa, ormai troppo esposto alla leva finanziaria e al peso della finanza nell’economia, dove è l’economia reale che sostiene la finanza e non viceversa.

E, di conseguenza, che “non si può escludere che questa crisi possa portare a un parziale riassetto degli equilibri globali, con ovvie ripercussioni sui flussi di capitale e sul modello capitalistico che ha contraddistinto gli ultimi vent’anni”.

Siamo su un altro pianeta rispetto al messaggio standard che arriva dall’establishment europeo e dunque italiano, secondo cui “con il Recovery Fund” stiamo lì lì per mettere in moto una fenomenale “ripresa”.

Data l’interconnessione tra i mercati europeo e statunitense, insomma, non si può pensare nemmeno per un attimo che quel che accade – o accadrà – lì non ci riguardi. Dunque, meglio sapere…

Il peso eccessivo di pochi grandi gruppi sull’economia globale, la massa incalcolabile (o quasi) di prodotti finanziari basati di fatto sul nulla, l’assenza di risparmio privato (al contrario che in Italia), una bilancia commerciale in deficit da decenni, un sistema produttivo devastato dalle delocalizzazioni, ecc, fanno degli Usa un pericolo pubblico.

La pandemia, e l’impossibilità di affrontarla con un sistema sanitario quasi completamente privatizzato, oltre che per la priorità data alle attività economiche rispetto alla salute, ha portato allo scoperto processi di crisi attutiti da anni. Persino la straordinaria generosità della banca centrale, la Fed, nell’allentare la politica monetaria e rifornire il sistema di liquidità a volontà, non è servita ad altro che ad impedire il tracollo.

Ma non può mettere in moto alcuna ripresa: “tutti gli interventi finora effettuati sono serviti ad evitare il default del sistema e non sono dunque utilizzabili per investimenti nell’economia reale”. Di fatto, “l’intero settore corporate si è posizionato in modalità sopravvivenza: non è certamente pronto a spendere questa liquidità, ma piuttosto ha come priorità quella di sopravvivere alla crisi.

Anche perché la specificità di questa crisi sta nell’essere generalizzata a tutti i settori, mentre quelle precedenti (200-2001 e 2007-2008) avevano riguardato principalmente le nuove tecnologie e l’immobiliare.

Ma se così è, “tutto ciò rende praticamente impossibile una rapida ripartenza lasciando fallire chi deve fallire per ripulire il sistema; è invece probabile che l’economia mondiale sia vulnerabile ad una serie di ricadute frequenti e ripetute non appena verrà rimosso anche solo in parte il supporto fiscale.

La liquidità fornita dalle banche centrali tampona sempre più a fatica la situazione, “giapponesizzando” l’economia (da oltre 30 Tokyo è in stagnazione, qualsiasi cosa faccia) e rinviando il tracollo che sposterebbe l baricentro dagli Usa… alla Cina.

Ma anche questa scelta ha un prezzo alto, visto il ruolo e il peso degli stati Uniti: questo “modello di crescita ha mostrato le sue vulnerabilità, perché ad ogni crisi le perdite sono sempre più ampie così come gli interventi richiesti.”

Il redde rationem deve avvenire. Si può scommettere solo sul “quando”, non più sul “se”…

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Trump o Biden, i margini di manovra economica Usa saranno ridottissimi

Maurizio Novelli, Lemanik – Milano Finanza

Crescono i timori per una seconda ondata di contagi in Europa e si è aperto il dibattito elettorale negli Stati Uniti: i mercati iniziano a temere complicazioni per, l’ormai già scontato, recupero dell’economia.

Continuo a pensare che l’impatto sull’economia reale non sia stato ancora compreso nella sua portata e tutta l’attenzione del mainstream si è concentrata su quanti vaccini saranno disponibili e chi vincerà le elezioni in America.

Francamente ritengo che la disponibilità prospettica dei vaccini attesi non possa ormai ripristinare completamente la solvibilità di un sistema che è stato colpito al cuore da questo evento, e chiunque sia il prossimo presidente negli Stati Uniti, si troverà a gestire una situazione di crisi economica che non consentirà ampi margini di manovra.

Il Covid ha travolto il modello economico degli Stati Uniti, un modello ormai troppo esposto alla leva finanziaria e al peso della finanza nell’economia, dove è l’economia reale che sostiene la finanza e non viceversa.

Le prime 20 società tecnologiche pesano per il 45% nella composizione dell’indice Standard and Poor e valgono il 15% del PIL mondiale: nella storia dell’economia non c’è mai stata una simile concentrazione di ricchezza e di rischio nell’allocazione di portafoglio.

Il credito speculativo circolante nell’economia americana è pari al 30% del PIL: si tratta di prestiti bancari, titoli garantiti da ipoteche, prestiti a leva, High yields bond, Subprime. I corporate bond con rating BBB sono ormai il 40% del mercato corporate, ma il 50% di queste obbligazioni sono oggi in outlook negativo, con il rischio di caduta nella categoria high yield.

Ovviamente i capi di queste società sono più che mai impegnati a difendere il rating a tutti i costi e tale missione richiede operazioni di riduzione del debito e dei costi che non sono certamente positivi per la crescita dell’economia.

Gli interventi monetari e fiscali hanno consentito a molte aziende di rifinanziarsi e di accumulare il più possibile la liquidità necessaria per cercare di rimanere solvibili. Non sono però d’accordo con il consenso che ritiene che tale liquidità sarà un potente carburante per la ripresa dell’economia, dato che l’intero settore corporate si è posizionato in modalità sopravvivenza: non è certamente pronto a spendere questa liquidità, ma piuttosto ha come priorità quella di sopravvivere alla crisi.

La verità è che tutti gli interventi finora effettuati sono serviti ad evitare il default del sistema e non sono dunque utilizzabili per investimenti nell’economia reale.

Si delinea ormai in modo sempre più evidente che gli Stati Uniti, a causa del Covid, stanno entrando in un contesto di giapponesizzazione, dove il settore privato deve ridurre l’indebitamento per rimanere solvibile e quello pubblico lo deve aumentare per compensare l’impatto del deleverage sull’economia.

Nonostante la dimensione degli interventi, i default nel sistema salgono a ritmi sostenuti e le imprese che hanno già dichiarato bancarotta superano i livelli del 2001 e del 2008. Tuttavia, sappiamo che la finalità degli interventi è quella di fare in modo che le insolvenze siano il più possibile diluite nel tempo, esattamente come è accaduto in Giappone dopo la crisi degli anni 90 e contrariamente a quanto è stato fatto dagli Stati Uniti nelle precedenti crisi.

Infatti, il sistema USA si è sempre contraddistinto per la velocità con la quale cerca di far emergere tutte le perdite al fine di ripartire il prima possibile: ma questa volta la dimensione delle perdite è talmente grande che non è possibile assorbirle in breve tempo.

La crisi pandemica non ha colpito un settore dell’economia come in passato (tecnologia o real estate), ma ha colpito l’intera struttura economica e finanziaria, rendendo dunque il danno talmente ampio che non è possibile assorbirlo in breve tempo.

Questo evento non è dunque circoscritto ad un solo settore dell’economia che, risolto il quale, è possibile rimettere in moto tutti gli altri: questa crisi ha colpito l’intera economia. È ovvio che tutto ciò rende praticamente impossibile una rapida ripartenza lasciando fallire chi deve fallire per ripulire il sistema; è invece probabile che l’economia mondiale sia vulnerabile ad una serie di ricadute frequenti e ripetute non appena verrà rimosso anche solo in parte il supporto fiscale.

Questo è quello che è accaduto in Giappone e probabilmente questo è quello che accadrà all’economia nei prossimi anni, dato che l’intero sistema è diventato ormai estremamente dipendente dagli stimoli fiscali.

Credo dunque che il principale rischio che si prospetta è quello di un double dip ripetuto (un andamento a forma di W, ndr) e non condivido le previsioni di una ripresa forte e lineare senza interruzioni fino alla fine del 2021, momento nel quale dovremmo recuperare i livelli di PIL del 2019 senza intoppi.

L’impatto della crisi sarà dunque, per quanto possibile, diluito nel tempo e probabilmente durerà molto di più di quanto oggi viene prospettato.

Nel frattempo, la congiuntura astrale sovrappone altri problemi. Il contesto geopolitico è in costante deterioramento e il processo di de-globalizzazione rischia di accelerare per lo scontro frontale USA-Cina su commercio e tecnologia.

L’America però affronta per la prima volta uno scontro geopolitico in una posizione di debolezza economica, che rischia di compromettere la tenuta dell’architettura economico-finanziaria di Bretton Wood.

È sempre stata la forza dell’economia USA a consentire il successo degli Stati Uniti nei confronti storici con Germania e Giappone nel 1940 e con l’Unione Sovietica alla fine degli anni 80.

Oggi la congiuntura è molto diversa perché l’economia americana ha un deficit con l’estero del 60% del PIL (mentre a quei tempi era in avanzo) e il debito che serve a finanziare la sua crescita è detenuto prevalentemente dall’Asia, un area la cui influenza vede l’ascesa indiscussa del suo principale competitor globale.

Cina e Giappone detengono il 40% delle riserve valutarie in dollari ma il Giappone, che è un alleato degli Stati Uniti, ha oggi più intercambio commerciale con la Cina (20%) che con gli USA (15%). Se la Cina, come prima o poi accadrà, inizierà ad utilizzare il renmimbi (yuan) negli scambi commerciali con l’Asia, il ruolo del dollaro subirà un inevitabile ridimensionamento nella allocazione del paniere delle riserve valutarie e la Cina è destinata a prendersene una parte importante.

Sebbene il ruolo del dollaro rimarrà ancora prevalente, è certo che la Cina si appresta a diventare un forte competitor sul mercato dei capitali, attirando una parte di flussi che oggi sono prevalentemente investiti solo sul dollaro. Per questo motivo è molto probabile che il lungo trend di leva finanziaria sempre più esasperata, che ha caratterizzato i cicli di crescita dell’economia USA dal 1980 ad oggi, sia giunto al suo apice.

Negli ultimi cinque anni nel sistema USA il debito è cresciuto a ritmi del 14% all’anno mentre in Europa o in Giappone cresceva al 5% circa: un ritmo quasi triplo rispetto al resto del mondo occidentale. Ovviamente, tale ritmo di espansione della leva finanziaria ha consentito all’economia USA di crescere più di altri paesi, ma con una serie di crisi finanziarie (2001, 2008 e 2020) piuttosto costose e devastanti.

Oggi è evidente che il modello di crescita ha mostrato le sue vulnerabilità, perché ad ogni crisi le perdite sono sempre più ampie così come gli interventi richiesti.

La concomitanza di alto debito nel sistema USA e la necessità di ridurlo con l’avvento del renmimbi come divisa convertibile, espone il sistema economico americano ad una perdita di flussi di capitale che possono essere compensati solo dall’allentamento quantitativo (QE) della Fed, la banca centrale Usa.

Ma più la FED stampa moneta per sostenere il debito, più il dollaro si espone al deprezzamento sui mercati.

Per questo motivo la congiunzione astrale per la tenuta del sistema di Bretton Wood si è fatta particolarmente difficile e non si può escludere che questa crisi possa portare a un parziale riassetto degli equilibri globali, con ovvie ripercussioni sui flussi di capitale e sul modello capitalistico che ha contraddistinto gli ultimi vent’anni.

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