Un’ intervista con Katy Fox-Hodess.
L’industria della logistica è fondamentale per la circolazione globale delle merci in un sistema capitalista. I lavoratori hanno un immenso potere, al suo interno, per fermare tale circolazione – se hanno la capacità di organizzarsi.
Negli ultimi decenni, il capitalismo ha scomposto il processo produttivo in singole fasi svolte in siti di lavoro separati sparsi in tutto il mondo. Di conseguenza, la logistica, il complesso di sistemi che organizzano il movimento fisico delle merci attraverso lo spazio e il tempo, è diventata più che mai centrale per il capitalismo globale.
Ciò offre ai lavoratori del settore logistico (che include porti, ferrovie, autotrasporti e altri comparti) un enorme potenziale di leva sulla classe capitalista. Qualsiasi tentativo di pensare strategicamente al rafforzamento del potere della classe operaia deve quindi fare i conti con questo settore ed il suo funzionamento.
Fabian Vugrin e Alexander Brentler, dell’edizione tedesca di Jacobin, hanno parlato con Katy Fox-Hodess, sociologa dell’Università di Sheffield, e cofondatrice dell’International Labour and Logistics Research Network, per discutere di queste possibilità.
Traduzione a cura di Francesca Cirillo per Contropiano.
FV – Ha senso parlare di “logistica” come separata dalla “produzione”? Se no, perché?
KFH – In termini più semplici, si potrebbe dire che in passato si aveva un grado di integrazione molto più elevato all’interno di determinati settori. In passato, più fasi del processo di produzione si svolgevano in un’unica sede rispetto a oggi.
Quello che vediamo oggi è che in una tipica industria manifatturiera, le fasi del processo di produzione tendono ad essere distribuite nello spazio in misura molto maggiore. Ogni volta, c’è uno spostamento nello spazio che implica un ruolo per l’industria della logistica e per i lavoratori della logistica nell’attuazione di quello spostamento.
In passato, se pensavamo ai lavoratori della logistica, pensavamo ai lavoratori dei trasporti in generale. Di solito pensavamo al movimento delle materie prime finite verso i mercati. Ma ora stiamo pensando a più fasi del processo di produzione all’interno di una stessa filiera, che comportano anche il movimento prima che il prodotto finito raggiunga il mercato.
FV – La logistica e i lavoratori del settore sono fondamentali per mantenere in funzione il capitalismo globale. Quali sono dunque le condizioni generali di lavoro, se ce ne sono, nel settore rispetto ad altri settori dell’economia e anche a un lavoratore tipo?
KFH – In termini meramente numerici, sicuramente possiamo pensare ai lavoratori dei magazzini, dei centri di distribuzione e del trasporto su strada. Tuttavia, altri comparti, come quello marittimo, portuale, ferroviario, aereo, rappresentano i punti davvero strategici dell’industria della logistica globale.
In termini di livelli occupazionali, ad ogni modo, il numero di persone impiegate in questi settori è molto inferiore a quello del magazzinaggio e del trasporto su strada.
Perché è così? In passato, il numero di persone occupate, in proporzione, nel settore marittimo, portuale e ferroviario era molto più elevato. In gran parte, ciò ha a che fare con i cambiamenti tecnologici e con le enormi economie di scala create attraverso l’aumento della containerizzazione e le dimensioni sempre maggiori delle navi che trasportano container e altre merci.
Ma il magazzinaggio e il trasporto su strada continuano a richiedere un alto contributo in termini di forza lavoro. In altri termini, fanno ancora affidamento principalmente sul capitale variabile per realizzare un profitto.
Mentre ci muoviamo lungo le catene di approvvigionamento globali, dalle navi ai porti, dalla ferrovia alla strada e ai magazzini, vediamo aumentare la dimensione proporzionale della forza lavoro.
Le navi portacontainer sono più grandi che mai. Ciò significa che in termini di forza lavoro, una singola nave trasporterà migliaia di container con un numero relativamente ridotto di persone impiegate sulla nave stessa.
A causa della tecnologia avanzata utilizzata nei porti, un numero molto ridotto di persone scaricherà o caricherà un numero enorme di container. Quando pensiamo al trasporto ferroviario, un treno trasporterà centinaia di container.
Ma quando si tratta di autotrasporti, un camionista di solito trasporterà solo un container. Quando quel container arriva in un magazzino, molti lavoratori saranno coinvolti nel disimballaggio e nella distribuzione di ciò che è contenuto in un singolo container.
Ecco perché i lavoratori e la logistica sono così fortemente concentrati nello stoccaggio delle merci e nel trasporto su strada piuttosto che nelle spedizioni, nei porti e nelle ferrovie.
FV – Che ruolo hanno avuto la “produzione just-in-time” e la differenza salariale globale in questo processo?
KFH – La produzione just-in-time è una parte centrale della storia di quella che viene chiamata la “rivoluzione logistica“, che significa l’ascesa della logistica come caratteristica centrale delle strategie capitalistiche di accumulazione.
Ciò è avvenuto principalmente a partire dagli anni ’70. In passato, quando si parlava di logistica, si parlava generalmente di logistica militare. Ma nel dopoguerra, questa disciplina attirò sempre più l’interesse del mondo della produzione.
L’esempio più famoso di questo tipo di passaggio dal militare al mondo aziendale ha a che fare con i container. L’uso del container è stato innovato dall’esercito americano durante la seconda guerra mondiale.
Perché le aziende si sono interessate così tanto a questo strumento? Negli anni ’70 c’è stata una recessione economica globale, insieme a tassi di redditività inferiori per le imprese del nord del mondo. Ciò ha portato queste aziende a perseguire risparmi sui costi esternalizzando la produzione nel sud del mondo, sfruttando regimi normativi più deboli e anche il minor costo del lavoro.
Un altro fattore è stata la crescita dei mercati di consumo, poiché gli stati in via di sviluppo nel sud del mondo hanno visto aumenti del tenore di vita e aumento dei consumi. Quindi vi è stata sia l’esternalizzazione della produzione da un lato sia la crescita di questi mercati di consumo globali.
Entrambi questi fattori tendevano a produrre un aumento della complessità e della frequenza di utilizzo delle catene di approvvigionamento globali. Questo, a sua volta, ha creato sfide logistiche per il capitale, nonché molte opportunità in termini di risparmio sui costi e accesso ai mercati.
Ma ha anche creato molte opportunità di interruzione. Questo è un problema particolarmente importante, perché mentre si assiste all’aumento dell’outsourcing dal nord del mondo, le aziende stanno cercando di affrontare una crisi di redditività.
Vediamo quindi le aziende spostarsi in molti settori da una strategia di cosiddetta produzione push1 a una strategia di produzione pull2. Nella gestione push le aziende spingono la merce sui consumatori attraverso previsioni e marketing. Le aziende studiano le tendenze di mercato, e poi suggeriscono ai consumatori cosa acquistare, spingendoli, attivamente, a comprare questi prodotti (ad esempio, attraverso la pubblicità).
Dagli anni ’70 in poi, assistiamo a questo passaggio a una strategia di produzione pull, in cui le aziende utilizzano nuove tecnologie come, ad esempio, i codici a barre, per rispondere rapidamente alla domanda dei consumatori. E questo diventa una nuova importante base per il vantaggio competitivo.
Ciò è strettamente correlato all’aumento della produzione just-in-time, in cui le aziende mirano ad avere i loro prodotti in costante movimento, con il minor tempo possibile passato sugli scaffali.
Il tempo passato sugli scaffali (letteralmente, shelf-time), il tempo di stoccaggio in un magazzino, rappresenta denaro perso, dal punto di vista della produzione just-in-time. Le aziende cercano di realizzare flussi senza soluzione di continuità: prodotti in costante movimento, senza ostacoli di sorta lungo le catene di approvigionamento.
Nel loro insieme, tutti questi sviluppi hanno creato la necessità per un’industria logistica globale di gestire il movimento (o lo spostamento) delle merci nelle varie fasi della produzione in tutto il mondo, spostandole nel modo più rapido e agevole possibile.
Poiché sempre più aziende hanno iniziato ad adottare queste strategie di produzione just-in-time, pull production, outsourcing, ciò ha creato un effetto a catena in cui altre aziende hanno sentito la pressione di seguire l’esempio.
AB – È notevole che un sistema costruito su margini così ristretti possa essere così resiliente. Penseresti che tutto questo sarebbe molto fragile. Quali diresti che siano gli ingredienti per far funzionare questo miracolo?
KFH – Penso che ci siano due cose da dire su questo. La prima è che, probabilmente nella maggior parte dei casi, il sistema non è all’altezza della sua promessa di continuità. Ci sono tante possibilità che le cose vadano male in un sistema come questo; spesso, dunque, le cose vanno male. Ci sono continui ritardi o incidenti di percorso. Quindi, in una certa misura, questa pretesa di fluidità esiste solo nel mondo dei consulenti di gestione.
D’altra parte, il sistema nel suo insieme funziona comunque abbastanza bene per il capitale. Uno dei motivi principali è l’uso della tecnologia dell’informazione. Questa è una componente davvero importante nell’ascesa della logistica moderna. Quando pensiamo alle tecnologie della logistica, tendiamo a pensare a tecnologie materiali come la containerizzazione. Ma il lato informatico è altrettanto importante.
L’avvento di Internet e della comunicazione istantanea consente alle aziende di logistica di apportare modifiche ai propri piani molto rapidamente e frequentemente. Sono in grado di minimizzare il più possibile la possibilità che le cose vadano male.
Il rischio di ritardi viene ridotto mediante il reindirizzamento e il ridispacciamento delle merci. E, naturalmente, nel trasporto su strada, nello stoccaggio e nella consegna all’utente finale dei pacchi, molti dei progressi tecnologici sono consistiti in nuovi modi per sorvegliare e disciplinare la forza lavoro.
FV- Che ruolo ha avuto lo Stato nella rivoluzione logistica?
Lo Stato ha svolto un ruolo molto importante nelle prime innovazioni nella containerizzazione, in Internet e in altre tecnologie che sono state centrali nella rivoluzione logistica.
Ma c’è un ruolo statale più ampio in termini di economia politica globale, in termini di aumento degli accordi di libero scambio negli ultimi decenni, ad esempio, che rappresenta uno dei motivi fondamentali che ha spinto le esternalizzazioni e le delocalizzazioni della produzione.
Il fatto che questi accordi commerciali non includano regolamenti per mitigare le esternalità negative per l’ambiente o per proteggere i lavoratori altamente sfruttati in altre parti del mondo è una decisione consapevole degli Stati.
Quindi possiamo pensare al ruolo dello Stato tanto in termini delle sue assenze (come le decisioni di non regolamentare), quanto alle sue decisioni di sviluppare tecnologie e firmare accordi commerciali.
AB – L’organizzazione tra i lavoratori della logistica è a volte vista come un’opportunità mancata per la sinistra. Presumibilmente, i lavoratori della logistica potrebbero esercitare molta pressione sul sistema, ma la realtà della lotta sindacale in questo settore è molto più mista. Cosa c’è di sbagliato in questa immagine troppo semplificata?
Penso che l’accento dovrebbe essere posto sul fatto che i lavoratori della logistica hanno potenzialmente molto potere strutturale; tuttavia, ci vuole ancora molta organizzazione per sfruttare questo potere.
Abbiamo discusso del ruolo centrale svolto dalla logistica nelle strategie di accumulazione del capitale, che negli ultimi cinquant’anni è diventato sempre più preponderante.
Ma il potenziale potere dei lavoratori nel settore deriva anche dal modo in cui l’industria della logistica è stata organizzata, come una rete di catene di approvvigionamento globali che si basa fortemente sulla presenza di hub, concentrazioni di infrastrutture che possono fungere da potenziali punti di strozzatura per il lavoro organizzato.
Quando pensiamo a questi hub o strozzature, in genere pensiamo a cose come mega-porti o grandi centri di distribuzione. Ma ci sono anche altri potenziali punti di strozzatura logistici.
Il potere dei lavoratori della logistica deriva dall’organizzazione della produzione nell’industria, dalla distribuzione geografica e dalla concentrazione delle infrastrutture, dal ruolo centrale che questi lavoratori svolgono nell’economia globale e nell’accumulazione del capitale. Tuttavia, queste sono condizioni necessarie ma non sufficienti affinché i lavoratori della logistica possano esercitare il potere.
Quali sono dunque le condizioni sufficienti per esercitare il potere? Torniamo alla questione dell’organizzazione. La domanda allora diventa: cosa impedisce ai lavoratori della logistica di organizzarsi con successo tanto quanto ci si potrebbe aspettare che facciano, data la possibilità concreta, per loro, di esercitare un forte potere?
La risposta che ho trovato attraverso la mia ricerca (che si concentra sui lavoratori portuali, quindi è su un settore specifico all’interno della logistica) è che l’organizzazione dei lavoratori della logistica non è così diversa dall’organizzazione di altri gruppi di lavoratori in tutta l’economia, in quanto è fortemente dipendente dalle condizioni sociali e politiche, indipendentemente dall’organizzazione della produzione e dell’economia.
Qui è dove le questioni come la legislazione in materia sindacale e di diritto del lavoro, la presenza di repressione dei sindacalisti da parte di apparati statali, datori di lavoro o attori extra-statali, il grado di stabilità politica e sociale, la natura del mercato del lavoro, incidono davvero molto.
Quello che ho scoperto, in particolare con i lavoratori portuali, è che il ruolo dello Stato è assolutamente centrale. Questo è vero in tutto il settore della logistica, ma lo è ancor di più per i porti, perché i porti sono spazi strategici per il capitale globale.
Quindi, le decisioni, ad esempio, sul fatto che i porti siano di proprietà pubblica o privata, hanno molto a che fare con il tipo di leva che i lavoratori hanno a loro disposizione in eventuali vertenze.
Lo vediamo anche con l’industria ferroviaria, dove le questioni sulla proprietà, pubblica o privata, delle infrastrutture tendono ad essere molto importanti. E l’immenso potere strategico di lavoratori come portuali e ferrovieri, ad esempio, può avere svantaggi oltre che vantaggi.
Maggiore è la capacità potenziale di questi gruppi di lavoratori di perturbare l’economia nel suo insieme attraverso l’interruzione del lavoro, più è probabile che lo Stato interverrà in modi che restringono la capacità del lavoro di agire come un attore collettivo efficace. Vediamo lo stato agire in modo piuttosto repressivo in molti casi.
Quindi, abbiamo questa crescente dipendenza del capitalismo globale da una strategia di accumulazione e crescita attraverso l’aumento del tasso di circolazione, che aumenta la vulnerabilità del capitale qualora le catene di approvvigionamento vengano interrotte. Queste vulnerabilità e interruzioni creano riverberi che vanno al di là di particolari hub.
Dunque, questa è sia una fonte di potere potenziale per i lavoratori in termini di relazione con il capitale, ma è anche una vulnerabilità per i lavoratori in termini di relazione con lo Stato capitalista.
La questione del potere strutturale è quindi complicata. E a mio avviso, quando si parla di potere strutturale nel settore logistico è altrettanto importante pensarlo in relazione allo Stato quanto lo è in relazione al capitale.
AB – Quindi arriveresti a dire che gli Stati intraprendono azioni specifiche per essere in grado di contrastare questo tipo di potere strutturale? Come la decisione di privatizzare determinati porti o ferrovie?
Assolutamente. Le decisioni di privatizzazione e le scelte che limitano il potere dei lavoratori in questi settori sono cruciali. Un altro esempio davvero chiave è la deregolamentazione del settore del trasporto su strada, avvenuta in modo molto esplicito negli Stati Uniti.
I camionisti negli Stati Uniti erano fortemente sindacalizzati e in passato avevano condizioni di lavoro molto migliori di quelle attuali. A seguito della decisione di deregolamentare l’industria, in un periodo di tempo molto breve, i conducenti di camion sono stati riclassificati, in larga misura, come appaltatori indipendenti, privi dei diritti che hanno i lavoratori salariati.
Lo Stato è sempre importante, indipendentemente dal settore dell’economia di cui stiamo parlando. Ma penso che possiamo rintracciare forme particolarmente esplicite di azione statale per minare il potere strutturale dei lavoratori nel settore della logistica più di quanto lo vediamo in altri settori.
Quali sono quindi le precondizioni più grandi per una riuscita integrazione di un settore logistico in un movimento sindacale più ampio? Ci sono esempi positivi da tutto il mondo per una strategia vincente nel settore della logistica e per alleanze per i lavoratori della logistica con la sinistra più ampia?
Non è una domanda semplice a cui rispondere. Citerei un paio di esempi dalla mia ricerca, sulle recenti controversie dei lavoratori portuali in Cile e in Portogallo dell’ultimo decennio, come buoni casi di integrazione nel più ampio movimento sindacale.
Prima della dittatura di Pinochet, il movimento operaio cileno era uno dei più forti in America Latina, c’erano un altissimo tasso di sindacalizzazione e organizzazioni sindacali molto militanti e politicamente attive. Questa era la situazione, prima di cambiamenti significativi introdotti nella legislazione sul lavoro durante la dittatura.
Oltre all’omicidio, all’incarcerazione e alla scomparsa di centinaia di sindacalisti, c’è stato il passaggio da un sistema di contrattazione collettiva a livello settoriale (simile a quello del Nord Europa) a un sistema di sindacalismo sub-aziendale con più sindacati in competizione per i membri all’interno dello stesso datore di lavoro. La scala della contrattazione collettiva e della rappresentanza si è notevolmente spostata.
Tutto questo ha notevolmente ridotto potere dei sindacati. E questo valeva per i portuali quanto per qualsiasi altro gruppo di lavoratori in Cile. I lavoratori portuali cileni non sono organizzati, secondo una logica unitaria, nemmeno porto per porto, ma all’interno dei porti in sindacati separati.
Presso ciascuna impresa, opererà, con ogni probabilità, più di un sindacato: un sistema di totale atomizzazione e frammentazione. Tuttavia, i portuali cileni hanno avuto un notevole successo negli ultimi dieci anni. Il loro successo dipende da alcuni fattori chiave.
Il primo è la loro capacità organizzativa. Hanno capito che questa frammentazione era uno svantaggio. E hanno cominciato a organizzarsi insieme prima a livello portuale e a livello regionale, poi a livello nazionale in un’organizzazione chiamata Unión Portuaria, che non è un sindacato legalmente riconosciuto, ma un’associazione di sindacati che agiscono insieme. E organizzandosi in questo modo, hanno costruito gli scioperi nazionali nel 2013 e nel 2014.
Ogni anno organizzavano scioperi nazionali di quasi un mese in un periodo chiave per l’esportazione di frutta e verdura di stagione, e si assicuravano di garantire porti che svolgono un ruolo particolarmente importante nell’economia di esportazione del paese, come il porto di Angamos a Mejillones, che esporta rame, la merce di esportazione più preziosa del paese (che rimane di proprietà pubblica).
I lavoratori sono stati capaci di essere molto strategici in termini di rivendicazioni. Ci sono stati alcuni problemi, tra cui la repressione dei sindacalisti, ma anche pause pranzo non pagate. Ma la dirigenza del sindacato ha capito che la vittoria più grande e significativa a lungo termine non era semplicemente di natura economica, per i lavoratori, ma sarebbe stata quella di costringere i datori di lavoro a contrattare come un’unità con l’Unione nazionale Portuaria, costringendo lo Stato a svolgere un ruolo di mediatore.
Quindi, in effetti, attraverso questi scioperi, i lavoratori portuali cileni hanno costretto lo Stato cileno a ristabilire un precedente per la contrattazione collettiva tripartita a livello settoriale per la prima volta da prima della dittatura.
Questo non è qualcosa che esiste nella legge. Questo è qualcosa che hanno forzato, di fatto, attraverso la loro azione di sciopero.
Parte del motivo per cui essi hanno avuto successo è che la loro leadership ha legami molto stretti con attori chiave della sinistra in Cile. In particolare, il movimento studentesco, ma anche altri sindacalisti in settori chiave, hanno avuto un ruolo fondamentale nelle proteste di massa in Cile nell’ultimo anno e mezzo e nelle proteste a favore di un sistema pensionistico pubblico e di avanzate riforme sociali.
I portuali hanno acquisito una reputazione come lavoratori molto combattivi a a sinistra. Hanno stabilito relazioni davvero significative con gli attori della sinistra, e questo li ha aiutati ad amplificare il loro messaggio e a rendere più difficile per lo Stato isolarli e reprimerli.
Dobbiamo considerare che uno dei problemi principali riscontrati dai portuali in sciopero, un problema comune a tutti i lavoratori dei trasporti, come i ferrovieri, è che la popolazione avverte fortemente l’impatto di queste azioni.
Ciò offre agli Stati e ai datori di lavoro l’opportunità di demonizzare questi lavoratori. Quindi avere questo livello di supporto sociale è un contrappeso davvero importante a questo potenziale di demonizzazione e repressione.
I portuali cileni sono anche fortemente coinvolti in un’organizzazione internazionale di lavoratori portuali, l’International Dockworkers Council, che ha minacciato un blocco delle navi dal Cile in un momento chiave della vertenza. È stato davvero efficace.
Tutti questi elementi insieme hanno aiutato i lavoratori portuali cileni a diventare una forza importante nel movimento sindacale cileno. Hanno ottenuto dei risultati davvero importanti, non solo per i loro iscritti, ma in termini generali: hanno stabilito alcuni nuovi parametri di riferimento per i lavoratori cileni nel loro insieme.
Una lezione fondamentale in tutto questo è l’unità. Non c’è altro modo di organizzarsi. L’unità è davvero importante. Quando pensiamo ai lavoratori della logistica, a causa della natura interconnessa della produzione, è davvero importante pensare all’unità non solo in un cantiere specifico, ma in tutti i siti di lavoro e persino a livello internazionale.
Penso che un’altra lezione sia che, nonostante il potere strutturale di questi lavoratori, essi abbiano compreso quanto fosse importante non solo fare affidamento solo sul loro potere strutturale, ma costruire forme di contropotere attraverso alleanze con altri movimenti sociali, con altri attori politici, proprio perché hanno compreso quanto fosse importante il ruolo dello Stato in una vertenza sindacale che aveva implicazioni ben più ampie per l’economia e la società.
AB – Quindi la proprietà chiave di questi sistemi in rete è che possono far fronte molto bene alle interruzioni localizzate, dunque ci vuole davvero uno shock a livello di sistema per interromperle davvero e in modo serio? Era questo che i portuali cileni erano in grado di ottenere con la loro strategia nazionale di più ampio respiro?
Assolutamente. Questo era esattamente il motivo per cui hanno dovuto adottare una organizzazione a livello regionale. Negli anni passati, accadeva di frequente che, quando i lavoratori di un terminal o di un porto scioperavano, le navi venivano semplicemente dirottate in un altro porto, proprio lungo la costa. In questo caso, il potere contrattuale dei lavoratori è fortemente colpito.
Quindi è stato solo unificando a livello regionale e nazionale le lotte, e dicendo “Nessuno di noi accetterà il carico deviato!”, che sono stati in grado di vincere.
Persino i loro compagni, a livello internazionale, dicevano “noi non accetteremo navi cilene”. Ecco dove sta il potere. L’unità dei lavoratori attraverso le filiere, lungo le catene di approvvigionamento, è assolutamente fondamentale nel settore della logistica, in misura assai maggiore rispetto a quanto avviene in molti altri settori.
FV – Molte persone sono diventate nuovamente consapevoli dell’importanza del settore logistico attraverso il COVID-19, l’incidente al Canale di Suez e così via. Quanto è probabile che assisteremo a una ri-regionalizzazione, se non ri-nazionalizzazione, delle catene di approvvigionamento?
Ci sono molte discussioni su questo attualmente, ma penso che sia troppo presto per sapere come andrà a finire. Nel Regno Unito, ci sono alcune prove che i datori di lavoro stiano iniziando a diversificare maggiormente le loro catene di approvvigionamento per gestire meglio l’incertezza, anche se, ovviamente, questo è diverso dall’internalizzazione della produzione.
Quando parliamo di ripensare le catene di approvvigionamento globali, è importante pensare a questo non solo come reazione alle interruzioni, ma in termini di cambiamento climatico. Queste catene di approvvigionamento globali hanno un’enorme impronta di carbonio e spesso funzionano in modi totalmente illogici dal punto di vista della prosperità umana o dell’ambiente. Le decisioni spesso hanno senso solo in termini di risultati economici.
Un classico esempio di questo è nella pesca. Il pesce può essere catturato da una parte del mondo, trasportato dall’altra parte del mondo (perché la manodopera è più economica) per smistare e preparare il pesce e lavorarlo nei conservifici, e poi trasportato in tutto il mondo ancora una volta verso i mercati di consumo. Da qualsiasi altra prospettiva, quindi la linea di fondo del capitale, questo non ha alcun senso.
Nel ripensare le catene di approvvigionamento globali, dovremmo tenere a mente questo quadro più ampio. Non si tratta solo di disagi per il capitale, di disagi per i consumatori in termini di interruzione. E’ una domanda molto più grande, e riguarda come abbiamo organizzato la produzione e il consumo nell’economia globale, e se questo sia davvero il migliore di tutti i mondi possibili, cosa che certamente direi che non è.
AB – Pensi che i lavoratori della logistica potrebbero essere al centro delle richieste di demercificazione e di nazionalizzazione? Le reti infrastrutturali potrebbero essere i punti di partenza più ovvi per questo…
Sì, penso che il Regno Unito ne sia un ottimo esempio. L’RMT, il principale sindacato dei ferrovieri, è un sindacato militante di estrema sinistra. Da anni guidano la campagna per la ri-nazionalizzazione del sistema ferroviario in Gran Bretagna. È una vertenza che raccoglie un vasto consenso nella popolazione.
In Grecia, i lavoratori portuali stavano combattendo, purtroppo senza successo, la privatizzazione dei porti indotta regime di austerità e dei requisiti del memorandum con la Troika, al fine di mantenere la proprietà dei porti in mano pubblica. Penso che non solo sia possibile, ma vediamo molti esempi concreti di questo genere di cose.
FV – Puoi dirci qualcosa di più sulla solidarietà internazionale e il coordinamento tra i sindacati dei lavoratori portuali?
Esistono organizzazioni sindacali globali che cercano di rappresentare i lavoratori di tutto il settore. L’organizzazione più diffusa è l’International Transport Workers Federation (ITF), che associa i sindacati nel settore dei trasporti, mentre l’organizzazione che studio, l’International Dockworkers Council (IDC), rappresenta solo i lavoratori portuali.
È un’organizzazione interessante perché è nata da alcune delusioni che i lavoratori portuali hanno avuto a causa del modo in cui la Federazione internazionale dei lavoratori dei trasporti aveva gestito alcune famose vertenze dei lavoratori portuali negli anni ’90 nel porto di Liverpool nel Regno Unito e nel porto di Charleston negli Stati Uniti.
I lavoratori portuali dell’IDC sostenevano che il problema fondamentale era che il modello ITF di sindacalismo globale era eccessivamente burocratico e che ciò impediva all’ITF di essere efficace quanto i lavoratori avevano bisogno che fosse. Così hanno formato l’IDC nel 2000.
Questa organizzazione ha due decenni di esperienza come organizzazione di base, ed ha un livello minimo di burocrazia: ha solo un organizzatore che lavora per essa a tempo pieno. L’IDC tende a funzionare più come una sorta di consiglio dei rappresentanti internazionali, dove i lavoratori condividono informazioni e elaborano strategie insieme e forniscono un supporto industriale concreto in termini di aiuto reciproco e in particolare si sviluppano azioni coordinate a livello internazionale in caso di vertenze (ad esempio, rifiutando di gestire merci dirottate da porti che sono in sciopero).
È un modello davvero efficace. Hanno lavorato attraverso molti altri canali, ad esempio legislativi, facendo pressione sui governi e su ogni genere di cose. Penso che sia davvero un ottimo esempio del tipo di cose possibili in termini di organizzazione internazionale dei lavoratori nel settore della logistica.
AB – Qual è il potenziale per i lavoratori della logistica di far parte di una più ampia coalizione per il potere della classe operaia?
Il potenziale c’è, sicuramente. In particolare nel settore che studio, nei porti, questo è davvero evidente. Alcuni degli scioperi generali più significativi storicamente iniziarono nei porti, come lo sciopero del porto di Londra del 1889, lo sciopero generale di San Francisco del 1934. Questi scioperi hanno dato un forte impulso ai movimenti sindacali in entrambi i paesi e ci sono molti altri esempi, fino ad oggi.
In termini di ciò che ha permesso questo genere di cose, l’aspetto fondamentale si basa su forti coalizioni tra sindacalisti e attivisti politici. Questo non funziona bene quando vediamo opportunismo o economicismo, sia dalla parte dei sindacalisti che degli attivisti politici.
Ma quando vi sono una politicizzazione e una comprensione profonde e significative tra sindacalisti e attivisti politici, c’è un’opportunità per usare gli scioperi in questi settori strategici per portare un cambiamento politico più ampio.
Io sono originaria di Berkeley, in California. E accanto a Berkeley c’è la città di Oakland, che ha un porto molto grande, con una grande tradizione di lotte radicali nel sindacato locale, l’International Longshore and Warehouse Union (ILWU), che storicamente è stato uno dei sindacati più di sinistra negli Stati Uniti.
Nell’ILWU, ma anche quando guardiamo ai lavoratori portuali di sinistra in Europa, c’è una storia di partecipazione alla lotta contro l’apartheid, nel protestare contro le guerre in Vietnam e Algeria, nel sostenere il movimento per i diritti civili negli Stati Uniti e solidarietà con il Cile.
I lavoratori portuali londinesi si rifiutarono di spedire armi che sarebbero state utilizzate all’indomani della Rivoluzione Russa per schiacciare l’Armata Rossa durante la guerra civile.
Molto più recentemente, proprio negli ultimi decenni, sempre a Oakland, in California, i portuali sono intervenuti contro le guerre in Afghanistan e Iraq, per Black Lives Matter, a sostegno del movimento Occupy e a sostegno della liberazione della Palestina.
Negli ultimi due anni, abbiamo visto esempi davvero fantastici in Europa di lavoratori portuali che si sono mobilitati contro la guerra in Yemen, protestando contro la spedizione di armi in Arabia Saudita. Quindi c’è una storia lunga e molto bella a riguardo.
Le persone di sinistra dovrebbero trarre molta ispirazione da ciò e capire che queste cose sono possibili. E si realizzano costruendo queste forti relazioni, queste coalizioni, che includono sindacalisti e attivisti politici.
Ora, ovviamente, le cose possono andare nella direzione opposta. Non sempre accade che i sindacalisti si politicizzino a sinistra. Ad esempio, i camionisti in Cile prima del colpo di stato nel 1973 che, probabilmente grazie ai finanziamenti della CIA, hanno interrotto il lavoro per protestare contro il governo socialista di Salvador Allende, creando carenze artificiali, che sono state un fattore scatenante per il colpo di stato.
Possiamo citare anche il sostegno della CIA, ad esempio, a Force Ouvrière, il sindacato francese nel dopoguerra che minava il potere dei portuali di sinistra della CGT a Marsiglia e altrove che si opponevano all’imperialismo francese.
Quindi non è detto che i sindacalisti diventino automaticamente politicizzati e assumano posizioni di sinistra. Ma c’è chiaramente questo potenziale, e ci sono esempi sorprendenti in tutta la storia del ventesimo e ventunesimo secolo. Dovremmo trarre da ciò ispirazione, imparare da questi esempi e costruire nuove esperienze.
1 La gestione push è caratterizzata da un anticipo dell’ingresso dei materiali in fabbrica allo scopo di garantire il tempo di consegna richiesto dal mercato; ciò è fatto utilizzando delle previsioni. Si cerca dinque di gestire i processi in anticipo rispetto al fabbisogno dei clienti, e in qualche modo di determinarli.
2 In una gestione pull, l’ingresso dei prodotti in produzione non è anticipato rispetto agli ordini.
- © Riproduzione possibile DIETRO ESPLICITO CONSENSO della REDAZIONE di CONTROPIANO
Ultima modifica: stampa