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Italia e Germania legate dalla deindustrializzazione?

Abbiamo assistito per anni al processo di ridefinizione delle filiere produttive europee intorno allo zoccolo duro tedesco e, in parte, francese.

La periferia del continente ha visto una progressiva distruzione del tessuto industriale, con ciò che rimaneva che è sopravvissuto ponendosi in posizione subordinata al cuore dell’Europa.

Ovviamente, molte produzioni sono state delocalizzate da parte di tutti i paesi occidentali, ma Berlino rimaneva una grande potenza per quanto riguarda il manifatturiero. E soprattutto, cosa più importante, per il valore aggiunto delle filiere a cui era a capo.

Dall’inizio dell’intervento russo in Ucraina e con le politiche di scontro frontale promosse dalla Commissione von der Leyen, le cose sono cambiate. La distruzione del Nord Stream 2 è stato il segnale del fatto che la politica messa in campo dalla Germania andava incontro al fallimento.

L’Energy Transition Barometer 2024, stilato dall’Associazione delle Camere di Commercio e Industria tedesche (IHK), ha confermato che i costi dell’energia e l’incertezza delle forniture stanno facendo pensare a 4 aziende manifatturiere su 10 di trasferire la produzione dalla Germania, o di limitarla.

Il dato aumenta se si considerato unicamente le industrie con 500 o più dipendenti: si parla di oltre la metà. Ovviamente, l’osservato speciale è l’automotive, da sempre pilastro dell’economia tedesca e ora in grave difficoltà, anche per il rapporto/scontro con la Cina.

Anita Wofl del Centro IFO per l’Organizzazione Industriale e le Nuove Tecnologie ha affermato che “l’industria automobilistica sta scivolando ulteriormente nella crisi”. L’indicatore della situazione economica è sceso di 10 punti a luglio, e più o meno lo stesso ha fatto quello delle aspettative.

L’utilizzo della capacità produttiva è sceso al 77,7%, ben 9 punti sotto la media di lungo periodo. Il 43,1% delle imprese segnala una mancanza di ordini e le aspettative di esportazione sono scese di 13 punti rispetto a giugno.

Achim Dercks, vicedirettore generale dell’IHK, ha commentato: “la fiducia dell’economia tedesca nella politica energetica è stata gravemente danneggiata. I decisori politici non sono riusciti a dimostrare alle aziende che possono avere una fornitura energetica affidabile e conveniente”.

In aprile Markus Krebber, amministratore delegato dell’utility tedesca RWE, aveva dichiarato al Financial Times come fosse “improbabile che l’industria tedesca si riprenda completamente dallo shock dei prezzi dell’energia e che torni alla competitività di prima dell’invasione russa dell’Ucraina”.

Se la locomotiva d’Europa è in crisi, ovviamente va in crisi anche uno dei suoi principali contoterzisti: l’Italia.

L’Ufficio parlamentare di bilancio (UPB), nella nota pubblicata il primo agosto, ha segnalato che la nostra economia è segnata da una “persistente flessione dell’attività industriale”, compensata solo dalla crescita del settore dei servizi.

La produzione dell’industria italiana è aumentata dello 0,5% a giugno, in maniera inattesa, ma su base annua rimane in calo del 2,6%. La produzione è in flessione dalla fine del 2022: a giugno il suo indice era pari a 95,5 se si considera un valore di 100 per quella del 2021.

Se la classe dirigente dei principali paesi della UE (e anche quella della UE stessa) non è in grado di garantire alle imprese condizioni favorevoli di produzione, queste le cercheranno altrove. Magari approfittando degli incentivi dell’Inflation Reduction Act statunitense.

A farne le spese saranno i lavoratori, e in generale la collettività del paese. È questo il problema quando si fonda un sistema sull’asservimento ai privati e agli andamenti di mercato.

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