I successi militari possono esaltare le classi dirigenti e i loro tifosi ma i dati della realtà picchiano duro e fanno male.
L’economia israeliana in questo anno di “guerra senza limiti” è peggiorata pesantemente, tanto da ottenere il declassamento da parte di Moody’s del rating sull’economia di Israele da A2 a Baa1 con outlook negativo.
Secondo il report di Moody’s, “a lungo termine, l’economia di Israele sarà indebolita in modo più duraturo dal conflitto militare di quanto previsto in precedenza”. L’agenzia di rating stima che “con maggiori rischi per la sicurezza, potrebbe non esserci più una rapida e forte ripresa economica come nei conflitti precedenti. A sua volta, una ripresa economica ritardata e più lenta in combinazione con una campagna militare più prolungata e più ampia avrà un impatto più persistente sulle finanze pubbliche, allontanando ulteriormente la prospettiva di una stabilizzazione del debito pubblico, rispetto alle nostre precedenti proiezioni”.
Un report dell’Agenzia Nova riporta le valutazioni di Chen Herzog, economista capo presso Bdo Consulting Israel, il quale spiega che il declassamento del rating crea un effetto domino. “I tassi di interesse sul debito pubblico aumentano a causa del basso rating, gonfiando ulteriormente il deficit fiscale. Una maggiore spesa pubblica per il servizio del debito rende necessario aumentare le tasse e tagliare altre spese, peggiorando il rallentamento economico”, ha detto, secondo quanto riferisce il quotidiano d’informazione economica israeliano “Globes”.
Sono dati che rivelano, in modo inequivocabile, come l’aumento del rischio geopolitico per Israele abbia conseguenze negative per l’affidabilità creditizia del Paese sia nel breve che nel lungo termine.
A quasi un anno dall’attacco palestinese del 7 ottobre 2023 in Israele, prima l’operazione militare nella Striscia di Gaza e poi con la più recente escalation in Libano ha provocato un incremento significativo della spesa militare, con circa 200-250 miliardi di shekel (54-68 miliardi di dollari).
Parallelamente, è aumenta la spesa pubblica, sia per finanziare i costi diretti della guerra, che quelli indiretti, come la gestione dei circa 60 mila sfollati che hanno dovuto lasciare le loro abitazioni nel nord di Israele e a spese dello Stato sono ospitati negli alberghi o vivono in abitazioni private. A tutto ciò, si aggiungono l’aumento dei costi dei beni, a causa degli attacchi dei miliziani yemeniti di Ansarallah alle navi container nel Mar Rosso.
In secondo luogo sono diminuiti gli investimenti in assets in Israele, che nel secondo trimestre 2024 sono aumentati di appena lo 0,3 per cento, e si sono quasi azzerati gli introiti derivanti dal settore turistico, che nel 2022 e nel 2023 avevano raggiunto i 5,5 miliardi di dollari.
E poi ci sono le migliaia di riservisti costretti a lasciare la loro occupazione per indossare l’uniforme.
Il 3 settembre, il ministro delle Finanze di Israele, l’estremista messianico Smotrich, ha presentato un piano di bilancio statale per il 2025 con un obiettivo di deficit del 4 per cento del Pil, che richiederà 35 miliardi di shekel (circa 9,5 miliardi di dollari) di aggiustamenti fiscali.
Per quest’anno, il governo israeliano ha dovuto aumentare l’obiettivo di deficit di bilancio del 2024 al 6,6 per cento del Pil da un 2,25 per cento pianificato e approvato prima della guerra. Israele ha registrato un deficit di bilancio del 4,2 per cento nel 2023.
Per soddisfare l’obiettivo di deficit di bilancio fissato per il 2025, Smotrich ha illustrato una serie di misure per gestire il buco fiscale di 35 miliardi di shekel (circa 9,5 miliardi di dollari). Tra le misure previste, vi è l’aumento dell’aliquota minima per i lavoratori a basso reddito dal 10 al 14 per cento. Tra le altre misure proposte vi è il congelamento dei salari del settore pubblico.
Nella valutazione di Moody’s è prevista una crescita del Pil reale israeliano dello 0,5 per cento quest’anno, mentre per il 2025 è prevista all’1,5 per cento, in calo rispetto alla stima precedente del 4 per cento. L’agenzia di rating stima che il debito pubblico salirà verso quasi il 70 per cento del Pil, rispetto alla previsione di un calo verso il 50 per cento prima del 7 ottobre.
Ma a pesare sono anche i privilegi richiesti dai partiti ultrasionisti per i loro elettori. I partiti dell’estrema destra e dei religiosi hanno sostenuto l’esecutivo di Netanyahu in cambio del mantenimento e in taluni casi dell’accrescimento dei loro benefici e sussidi.
Lo scorso 22 settembre, l’Ufficio centrale di statistica ha pubblicato i dati che indicano un’allarmante tendenza al rialzo nel 2023 del numero di israeliani che trascorrono molto tempo all’estero. I numeri mostrano un aumento del numero di persone che lasciano e una diminuzione del numero di rimpatriati, e si prevede che la guerra avviata il 7 ottobre rafforzerà la tendenza alle partenze nel prossimo anno.
Secondo i dati, nel 2023 circa 55.300 israeliani hanno lasciato il Paese per un soggiorno prolungato, con un tasso del 5,7 ogni 1.000 residenti, in leggero aumento rispetto agli anni precedenti. Contestualmente sono solo circa 27.800 gli israeliani tornati in Israele durante l’anno, un tasso del 2,9 per 1.000 residenti – il che costituisce un saldo di immigrazione negativo, con circa 27.500 persone in più in partenza che in ritorno.
La fascia d’età più numerosa che ha lasciato Israele è quella compresa tra i 25 e i 44 anni, che è anche la fascia d’età principale nel mercato del lavoro. Un’elevata percentuale di coloro che lasciano il Paese possiede titoli accademici, soprattutto in settori come la tecnologia e l’economia.
- © Riproduzione possibile DIETRO ESPLICITO CONSENSO della REDAZIONE di CONTROPIANO
Ultima modifica: stampa
giovanni
Aspettando un rigurgito di dignità’ del popolo israeliano contro Bibi, che nel mentre gode del 43% di gradimento nel suo Paese……….
Umberto Pelliccia
https://www.wallstreetitalia.com/manipolazione-mercato-l-italia-attacca-s-p-e-moody-s/ per non dimenticare quel giorno in cui decisero di farci pagare la crisi dei subprime declassandoci con dati fasulli. Un dumping utile solo a dirottare gli investimenti verso Wall Street