Il Governo Monti ottiene la fiducia della Camera. I sì sono stati 495, i no 88, gli astenuti 4. Il voto finale di Montecitorio sulla manovra economica in prima lettura è previsto per questa sera. Il decreto legge passerà poi al Senato.
La recessione è intanto ufficialmente iniziata. Se n’è accorta Confindustria che comincia pretendere anche da Monti qualche misura in più per “la crescita” e non solo il “rigore” sui conti pubblici. Ma che inizia anche a criticare apertamente la gestione della crisi fatta dalla Germania, che ha ricevuto indubbi ventaggi dall’uso dell’euro e che ora si rifuta di farsi carico dei problemi “comunitari” che proprio quei vantaggi stanno amplificando.
Il rischio è evidente: un padronato che si “nazionalizza” e. per questa via, cerca “protezionismo” e si pone come “referente” dei problemi di una popolazione che si impoverisce progressivamente, tra politiche europee dementi e “normale” sfruttamento casalingo.
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Confindustria: Italia in recessione -1,6% il Pil 2012
L’Italia è entrata in recessione prima ancora che la gelata europea si delineasse, come sta facendo ora sull’intero continente. La stima del Centro studi Confindustria è che il 2012 non sarà davvero un bell’anno per l’Italia e per l’Europa. Non per le profezie dei Maya, ma perché la crisi di fiducia, innescata dalle tensioni sui titoli sovrani ed entrata in corto circuito con i debiti bancari di Eurolandia, ha già cominciato a trasmettersi all’economia reale. E anche perché nel mondo la dinamica del commercio internazionale rallenta fmo ad azzerarsi, per effetto delle conseguenze di politiche di bilancio restrittive avviate congiuntamente in quasi tutti i Paesi europei e negli Stati Uniti che, come si sa, sono il principale consumatore mondiale.
Il risultato è che l’anno che sta per arrivare porta con sé, secondo le stime presentate ieri a viale dell’Astronomia, una contrazione del Pil pari all’1,6 per cento per noi italiani (sarà meno 0,5% anche nell’Eurozona) mala caduta effettiva dell’attività produttiva sarà di due punti percentuali di Pil tra l’estate del 2011 e la primavera prossima. Per l’Italia si tratta della «quinta recessione dal 1980» e di una preoccupante ricaduta dopo il -5,1 per cento del 2009. La nuova flessione del Pil, dopo «un progresso di appena lo 0,5%» quest’anno è stata registrata dagli economisti di Confindustria già nel terzo trimestre del 2011, Si è accentuata nel quarto e raggiungerà la maggiore intensità nel primo 2012.
Le manovre varate dal Governo hanno effetti restrittivi, ma senza sarebbe andata molto peggio, ha sottolineato ieri il direttore del CsC, Luca Paolazzi. Se tutto andrà bene e le decisioni europee saranno correttamente implementate in modo da ripristinare la fiducia, la ripresa potrebbe instaurarsi già all’inizio dell’estate e dare luogo in tal modo a un incremento dello 0,6 per cento nel Pil già nel 2013. In ogni caso, le conseguenze sul mercato del lavoro saranno rilevanti: la disoccupazione salirà fino al 9,0% a fine 2012 con una perdita di 0,6 punti percentuali nell’occupazione.
L’occupazione, spiega infatti il CsC, «scenderà dello 0,6% l’anno prossimo e dello 0,2% in quello seguente, che si chiuderà con 957mila unità di lavoro e con 800mila persone occupate in meno rispetto all’inizio del 2008». La sfida essenziale, secondo Paolazzi, «è preparare oggi le condizioni per avere la ripartenza tra un semestre, in modo da far tornare il segno positivo nella variazione del Pil nel 2013. La politica in Europa e anche in Italia ha cominciato a dare risposte adeguate».
Per gli economisti di viale dell’Astronomia, «il lieto fine per l’Italia non può consistere solo nello scampato pericolo del dissolvimento della moneta unica, cui il Paese può fornire l’innesco, ma dal ritorno all’alta crescita» che si stimola con una «breve e fitta stagione di riforme». Rimuovendo infatti le sole carenze infrastrutturali, ricorda il Csc, si potrebbe avere un incremento del Pil del 12% in io anni. Invece, la pressione fiscale inItalia raggiungerà livelli record: tra due anni quella effettiva, che esclude il sommerso, supera abbondantemente il 54%. E questo «rende ancora più impellente utilizzare ogni strumento di contrasto all’evasione fiscale». Intanto, caleranno i consumi dell’1% nel 2012 per tornare allo 0,4% nel 2013.
«Le famiglie – osserva Paolazzi – continueranno a difendere lo standard di vita, accentuando gli acquisti in offerta, modificando le abitudini di spesa e rinviando il rinnovo di beni semidurevoli e durevoli». Gli spazi per un’ulteriore erosione del risparmio «appaiono, invece, ristretti: la propensione alla parsimonia ha raggiunto all’inizio del 2011 il minimo storico, l’11% del reddito disponibile lordo». Naturalmente, in questo momento bisogna soprattutto essere consapevoli del fatto che l’Europa «è a un bivio»: o sceglie il dissolvimento dell’euro o imbocca un rientro in tempi brevi dalle insostenibili tensioni sui titoli sovrani per spingere la ripresa per metà 2012. «Non ci sono mezze misure» e sono «inconcepibili vie intermedie». L’ottimismo della volontà, in questa fase, è un dovere anche perché l’alternativa, secondo le cifre di alcune simulazioni ricordate ieri, riguardanti le quattro maggiori economie dell’Eurozona è agghiacciante: nel primo anno il Pil crollerebbe tra il 25 e il 50 percento, svanirebbero tra sei e i nove milioni di posti di lavoro, in ciascuna di esse i deficit e i debiti pubblici raggiungerebbero «valori da immediata insolvenza perfino in Germania». In pratica, ci troveremmo a vivere un incrocio fra l’immediato dopoguerra e la crisi dell’Argentina.
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Italia in recessione. Marcegaglia: il Paese può farcela
ROMA – Siamo in recessione. È un’ammissione e un allarme quello di Emma Marcegaglia di fronte ai dati del Centro studi Confindustria: -1,6% di pil nel 2012. «Una stima conservativa», sottolina la presidente degli industriali. «La caduta del Pil potrebbe essere anche peggiore» se non si invertisse la rotta. La Ue deve muoversi: «Deve fare la sua parte, tutta l’Europa è in recessione». E la Marcegaglia se la prende con la cancelliera tedesca Angela Merkel: «La Germania non può rimanere su posizioni di rigidità parlando solo di austerità e conti pubblici». C’è un rischio pesante sullo sfondo: «Il collasso dell’euro. Sarebbe gravissimo, non ha un’alta probabilità, ma il rischio c’è».
Nonostante ciò la presidente di Confindustria lancia un segnale di ottimismo: «L’Italia può farcela, non siamo condannati a restare in recessione per i prossimi anni, ci sono grandi potenzialità». Nelle analisi del Csc non si prevede un’altra manovra correttiva a primavera: «Ma è necessario che gli spread calino, e così gli interessi sui titoli di Stato. Altrimenti avremo un aggravio della spesa pubblica per interessi».
Crescere è l’imperativo. «Senza crescita non si crea occupazione, è un elemento fondamentale per l’equità». E se da una parte la Marcegaglia ha dato atto al governo di aver inserito nella manovra misure per lo sviluppo, «anche se non sufficienti» e che «vanno portate avanti», dall’altra lo incalza sulle liberalizzazioni: «Sono inaccettabili certe resistenze, chi alza le barricate contro le liberalizzazioni, con la politica che si inginocchia». Cita farmacie e tassisti. «Nella prima versione della manovra si ipotizzavano alcune misure. Chiediamo al governo che cambi atteggiamento: bisogna dare spazio al mercato. Basta fare marce indietro davanti a chi protesta».
La manovra ha comunque fatto recuperare credibilità all’Italia. «Abbiamo realizzato manovre per 100 miliardi di euro, abbiamo dimostrato di aver fatto sacrifici». È vero che l’intervento si basa soprattutto su tasse, che toccheranno il record storico di oltre il 45%, una quota «non sostenibile nel medio termine». Tutti hanno fatto sacrifici, pensionati («ora abbiamo il sistema migliore d’Europa»), famiglie, cittadini e anche le imprese. «La riforma delle pensioni costa anche alle aziende». C’è anche una patrimoniale: «È stata sottaciuta per motivi politici, ma c’è, con le tasse sulle case, sui titoli, sulle barche». La manovra, ribadisce la Marcegaglia, «andava fatta» e il paese ha dimostrato «maturità». Ma ora bisogna andare avanti, con una spending review per ridurre la spesa, una riforma fiscale per ridurre le tasse su lavoratori e imprese. Bisogna affrontare il tema della produttività, anche arrivando entro marzo, come promesso alla Ue, ad una riforma del mercato del lavoro, senza resistenze ideologiche.
E la presidente di Confindustria vuole sgombrare il campo dalla vecchia questione degli aiuti alle imprese: «Si parla di 30 miliardi, per le aziende private sono solo 2,7, meno di altri paesi europei». Comunque «siamo pronti a discutere. Se vogliamo tramutarli in tagli all’Irap, parliamone».
Va affrontato anche il problema dei crediti delle imprese nei confronti della Pa: 70 miliardi, ha detto la presidente di Confindustria. Si era parlato nei giorni scorsi di emissioni di titoli di Stato ad hoc. «Troviamo una soluzione. In questa fase di credit crunch è un peso sulle spalle delle imprese». Ma il rischio è che i sacrifici dell’Italia cadano nel vuoto se l’Europa non farà la propria parte: «La crisi greca è stata gestita male, ha scatenato le tensioni sull’eurodebito. L’atteggiamento della Germania non è comprensibile, visto che i paesi, Italia compresa, hanno fatto manovre di risanamento. Chiediamo al governo che il tema venga posto e noi lo faremo come Confindustrie europee».
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Possiamo insegnare qualcosa agli altri
Luca Paolazzi
La recessione non è più evitabile. Semplicemente perché è già cominciata. In Italia e nell’area euro, come ha riconosciuto anche il presidente Bce, Mario Draghi. Si può però ancora intervenire per renderla più breve e meno intensa. Come?
La risposta va cercata nelle cause che l’hanno provocata. Queste cause non sono quelle che provocano le normali fasi negative del ciclo economico, ma sono dovute all’ondata di sfiducia che ha contagiato mercati finanziari e famiglie e imprese sulla capacità dei sistemi politici e delle istituzioni europei di mettere in salvo il progetto della moneta unica.
Sfiducia che ha riportato dentro le banche una crisi che era partita dalle banche (almeno in ciò, quelle italiane sono innocenti) e che era diventata dei debiti sovrani. E questo avvitamento ha messo in moto una stretta del credito che sta diventando sempre più violenta.
Molti continuano a pensare che i famosi (o famigerati spread) siano qualcosa che riguarda solo i bilanci pubblici, nonostante le molte pagine dedicate da Il Sole 24 Ore a spiegare che i divari di rendimento si sono trasformati in prosciugamento della liquidità nei sistemi creditizi. E per questa via quegli spread, quindi, sono entrati come elefanti imbizzarriti nella vita quotidiana dei lavoratori, dei consumatori, delle imprese.
Forse nelle trasmissioni televisive e nei dibattiti politici occorrerebbe vedere questi spread non come demoni e qualcosa di altro che non ci riguarda, se non per il fatto che ci costringe a varare nuove manovre sui conti pubblici, ma con lo stesso rispetto e con la stessa tensione emotiva con cui li osservava ossessivamente Carlo Azeglio Ciampi all’epoca in cui da essi dipendeva la partecipazione dell’Italia alla moneta unica. Spread che tendono a dividere l’Europa, determinando traiettorie divergenti delle economie perché redistribuiscono competitività. Ma se qualcuno pensa di poterne approfittare per consolidare posizioni e conquistare quote di mercato, non ha ben compreso la posta in palio.
Perché, va detto con estrema chiarezza, l’economia e la società del Vecchio Continente sono di fronte a un bivio. Da una parte, si imbocca il rientro in tempi rapidi dalle eccessive e insostenibili tensioni sui titoli sovrani, accompagnato dall’eliminazione dell’incertezza e dal ripristino di condizioni del credito regolari, facendo leva sulle misure decise l’8 e il 9 dicembre da Bce e Consiglio d’Europa.
Dall’altra parte si prosegue con l’attuale quadro fatto di enormi differenze tra i rendimenti dei titoli di Stato (che tenderebbero ad ampliarsi), di frammentazione del credito in mercati nazionali e di prosciugamento dei prestiti, che stanno causando l’accartocciamento della domanda e delle attività produttive. Ciò innescherebbe il dissolvimento della moneta unica, il fallimento di decine di migliaia di imprese e di centinaia di banche, la perdita di milioni di posti di lavoro e l’esplosione di deficit e debiti pubblici anche nei Paesi che oggi si considerano virtuosi.
Vincoli politici, legali, istituzionali e culturali stanno ostacolando l’azione dei governi e della Banca centrale europea. Ciascun attore può avanzare legittime ragioni di impedimento al gioco cooperativo che sarebbe indispensabile per rinsaldare la fiducia, con sollievo di tutti. Ma di fatto queste ragioni costituiscono non tanto gabbie oggettive quanto soggettive vie di fuga dalla responsabilità di decisioni cruciali.
Paradossalmente, e nonostante spettacoli poco consoni ai luoghi in cui avvengono e atteggiamenti duri a morire di difese corporative, è l’Italia che ha compreso meglio di altri Paesi la gravità del momento e ha cominciato a fare quel che sta in lei per spezzare la spirale. Ciò è motivo di orgoglio e porterà alla riconquista della credibilità.
La sfida ancora più grande è quella di tornare su un alto sentiero di sviluppo, rilanciando la produttività dell’intero sistema e recuperando in competitività in ogni ambito.
Perciò occorre una breve e fitta stagione di riforme che migliori l’efficienza della pubblica amministrazione (che vuol dire anche meno evasione), accorci drasticamente i tempi della giustizia, aumenti il grado di concorrenza nei servizi, elevi quantità e qualità dell’istruzione, rimuova gli ostacoli all’occupazione, potenzi la protezione del welfare, incentivi e promuova ricerca e innovazione, innalzando il tasso di occupazione giovanile e femminile, riduca i divari regionali. Niente di meno e niente di più.
Serve anzitutto agli italiani, di ogni genere ed età. Ma servirà anche all’Europa a ritrovare se stessa, il senso della propria esistenza e del proprio progetto. Ed è il miglior augurio che ci si possa scambiare in vista del Natale.
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