Più manifesto di un’opposizione sociale e politica, che non soltanto una protesta di categoria. Senza tanti riguardi per la “politica delle alleanze a destra” che sta portando la Cgil a diventare un “sindacato di mercato”, corporativo e aziendale.
La presenza di segretari “non estremisti” di categorie importanti, come Carla Cantone per i pensionati (la vera “cassaforte” della Cgil e Mimmo Pantaleo per scuola, ricerca, università – mostra che nel corpaccione di quel sindacato la “sofferenza” è forte. E che qualche robusta crepa si va aprendo nella corazza di regime che Susanna Camusso sta costruendo per quello che era il sindacato di Di Vittorio. Meglio così. Più gente riesce a sottrarsi a quel destino, meglio è. Per tutti.
«Non ci avrete mai come volete voi»
«I lavori non sono uguali; fino a 70 anni ci può stare un prof. universitario, non operai o maestre»
Francesco Piccioni
Un’assemblea nazionale di metalmeccanici non è un pranzo di gala. Gli interventi «ingessati», qui, fanno salire un fischio alle labbra (se ne accorgerà poi Danilo Barbi, neosegretario confederale, mentre polemizza a vuoto con «chi privilegia i mezzi invece che i fini»). Specie in una sala che è quasi un capannone industriale, come questo Atlantico, alle porte di Roma.
È anche per questo che Maurizio Landini – segretario generale Fiom che deve spiegare le ragioni di uno sciopero altrettanto generale – resta molto sul concreto, come sua abitudine: «hanno cancellato le pensioni di anzianità e non va bene; un conto è fare il professore universitario, che in cattedra fino a 70 anni ci puoi anche stare, tutt’altro è stare alla catena, negli ospedali o negli asili nido». Un attacco frontale a una logica ragionieristica che cerca di far passare per «eque» misure che affondano in differenze pesanti nella vita di ognuno: «i lavori non sono tutti uguali». Punto.
I bersagli polemici sono trasparenti. Il governo dei «professori», qui, non è per nulla popolare. «Siamo contenti che non ci sia più Berlusconi, ricordo che siamo stati tra i pochi a scendere spesso in piazza per mandarlo via». Ma questo non rende ciechi e sordi: «giudichiamo i governi per quello che fanno», e questo sta devastando la coesione sociale. Basta pensare al problema degli «esodati»: oltre 70.000 lavoratori, molti in tuta blu, che sono usciti dai posti di lavoro «in base alle regole che esistevano in quel momento e come atto di solidarietà per permettere ad altri, più giovani, di continuare a lavorare»; persone oggi senza lavoro e senza pensione, a causa della «riforma» computerizzata e disumana messa in campo a dicembre da Fornero & co. Oppure all’art. 18, «che va tolto dalla trattativa con il governo». Perché «è contraddittorio dire ‘basta precarietà’ e poi abolirlo, rendendo così tutti precari».
Il tema di quest’assemblea è lo sciopero dei metalmeccanici, certo. Ma in questa situazione è difficile tracciare una separazione netta tra problemi di categoria e confederali, o politici tout court. La relazione parte dal contratto scaduto (quello del 2008, firmato anche dalla Fiom e poi disdettato da Cisl e Uil, prima che dai padroni), dalla situazione in Fiat e dalla tentazione, tra gli imprenditori, di «diffondere» il modello «autoritario» di relazioni lì inaugurato con la svolta di Pomigliano. Ma travalica di continuo i confini, assumendo i contorni potenti di una piattaforma dell’opposizione sociale e politica.
D’altro canto, gli inviti ai «movimenti» hanno portato qui centri sociali del Nordest (Luca Casarini), sindaci No Tav, segretari di altre categorie Cgil (Carla Cantone per lo Spi, Mimmo Pantaleo per scuola e università), i membri dell’area programmatica «La Cgil che vogliamo». Voci tutte un po’ fuori o ai limiti del coro, che sentono la pressione sociale salire sotto politiche piovute da Marte.
Ma se i temi di carattere generale acquistano prevalenza, non sono certo le tute blu a spaventarsene. Questo si è sempre concepito come «sindacato generale». Lo ricorda Landini en passant: «noi non siamo mai stati un sindacato solo ‘operaio’; fin dall’inizio ci siamo chiamati ‘Federazione impiegati e operai metalmeccanici’; e in Fimnmeccanica, piena di ingegneri, siamo il primo sindacato».
Fuor di cronaca. La percezione comune è di essere a un tornante della storia. Dopo 20 anni passati a «lasciar fare al mercato, che risolve tutti i problemi», siamo in una crisi da cui nessuno sa come uscire. Serve un «piano straordinario di investimenti pubblici e privati», che inquadri un «nuovo modello di svluppo». Una prospettiva che può essere persino insufficiente, ma nell’unica direzione logica. Al contrario: qui stanno strozzando «il lavoro che produce ricchezza» per «salvare la finanza che la distrugge». In questo nuovo mondo, esemplificato dal governo Monti, non esistono più questioni «solo» categoriali. «Se si defiscalizza il lavoro straordinario», per esempio, si favorisce ovunque una riduzione dell’occupazione, a scapito di quei giovani che tutti – a chiacchiere – dicono di voler difendere. Al contrario, «se si ha a cuore l’occupazione bisogna defiscalizzare la riduzione d’orario e i contratti di solidarietà».
La lista degli interventi possibili e necessari è lunga. Quel che è peggio, per chi oggi governa, è che si tratta di una lista con una coerenza interna superiore. Ma non comanda. «È finito il tempo delle pacche sulle spalle, quello in cui ci si chiama ai tavoli solo per i casi di crisi, perché siamo rappresentativi; mentre gli accordi e i contratti si fanno con chi dice sempre sì». Il paese sta rischiando il tracollo del sistema industriale, quindi «noi non stiamo scherzando».
Va rovesciato l’ordine delle «priorità». È un problema politico, oltre che sindacale. Non a caso viene posto da un «sindacalista rock» – direbbe Celentano – che chiude in una standing ovation al grido di «non ci avrete mai come volete voi». Appuntamento al 9 marzo; in piazza, a Roma. Tutti.
da “il manifesto”
L’editoriale di Loris Campetti, sullo stesso giornale, è importante per la descrizione impietosa di quel che sta avvenendo dentro la Fiat. A pomigliano, oggi. Dappertutto, in trempi brevi.
La campana suona per noiLoris CampettiCosa sarebbe dell’Italia senza la democrazia? Per capirlo è sufficiente vedere cosa sta succedendo a Pomigliano, in una fabbrica chiusa e riaperta da Marchionne sotto altro nome per cancellare il sistema di garanzie e diritti sindacali e individuali conquistati in più di un secolo di lotte.
Sotto il Vesuvio, lungo le linee della nuova Fiat Panda, la Fiom non ha accesso, è stata messa fuori da un accordo separato che getta alle ortiche il contratto nazionale di lavoro e riconosce qualche sparuto diritto sindacale solo alle organizzazioni che hanno firmato la resa loro e la morte di un altro sindacato che invece non si è arreso. Qui, su duemila «nuovi» assunti non ce n’è uno iscritto alla Fiom. Forse uno o due ce l’aveva quella tessera extraparlamentare, ma per essere assunto l’ha dovuta strappare. Allora, a Pomigliano senza Fiom succede che se un operaio selezionato (politicamente e sindacalmente) non ce la fa a reggere i ritmi infernali del nuovo modello produttivo Fiat, se ritarda di qualche secondo o se monta male un pezzo, non solo viene sanzionato ma a fine turno e senza poter andare in mensa a mangiare è costretto a presentarsi nell’«acquario», un open space dove al disgraziato viene consegnato un microfono e davanti a una folla di capi, capetti e sottocapi deve dire «song n’omm e mmerda». Meglio ancora se accusa il suo vicino alla catena di montaggio per quel ritardo o quell’errore. Così, con meno pause, con la mensa spostata a fine turno, con i ritmi da far paura all’operaio Charlie Chaplin, con il divieto di scioperare e di eleggersi liberamente i propri rappresentanti, con i pubblici atti di dolore e di autoflaggellazione, ci raccontano che la locomotiva Italia riconquisterà la competitività sul mercato globale. E quasi nessuno, tra i monti e i colli di Roma, trova da ridire.
Se così stanno diventando le fabbriche e tutti i posti di lavoro – perché la Fiat fa scuola in Italia, da Pomigliano a tutti gli stabilimenti del gruppo, all’indotto meccanico, chimico e via costruendo e trasportando, e via egemonizzando in Federmeccanica, in Confindustria, al governo dei tecnici, persino dentro il centrosinistra e negli altri sindacati – cosa ne sarà della nostra democrazia? Una democrazia sospesa, e dormiente, una politica che si è consegnata ai tecnici illuminati dalla finanza.
Inutile chiedersi se e quando si risveglierà la nostra democrazia, raccontandoci che saranno gli stessi anestetisti, un giorno, a decidere di aprire le finestre.
Quelle finestre resteranno chiuse, se non ci penseremo noi a spalancarle. Dove il noi comprende tanti pezzi di società non pacificati che stentano a mettersi in comunicazione tra di loro. Bisogna capire, come si ostina a fare la Fiom, che la condizione precaria riguarda l’intero mondo del lavoro e del non lavoro, che non c’è contrapposizione tra difesa dell’articolo 18 che andrebbe semmai esteso a tutti insieme agli ammortizzatori sociali, e battaglia per un reddito di cittadinanza.
Il 9 marzo sarà un’occasione per tutte le voci fuori dal coro del pensiero unico dominante. Lo sciopero generale della Fiom deve diventare un embrione di alternativa allo stato di cose presente, un primo momento di ricostruzione di un progetto comune con cui uscire dalla difensiva.
Ieri a Roma la parte viva del sindacato italiano ha lanciato un appello generale. Con uno slogan – la democrazia al lavoro – e la convinzione che è il lavoro a creare la ricchezza mentre la finanza lo distrugge. I delegati e le delegate metalmeccaniche hanno raccontato un paese in crisi, fabbriche occupate e in cassa integrazione, interi distretti industriali desertificati, regioni come la Sardegna a cui hanno tolto il tappo e adesso rischia di affondare. Ma anche fabbriche salvate dalla lotta coraggiosa della Fiom, come il cantiere navale di Sestri, o prima ancora la Innse. Dunque, è di lavoro e investimenti per un nuovo modello di mobilità e di sviluppo che bisogna parlare, di come creare occupazione qualificata, di come lo stato deve intervenire nell’economia, e non di come rendere ancor più facili i licenziamenti. Invece il centrosinistra si limita a dire che sul mercato del lavoro va bene quel che decidono i sindacati naturalmente uniti e le parti sociali. Di quale unità vanno cianciando, nella stagione degli accordi separati? La sinistra parlamentare non ha niente da dire sul mercato del lavoro, e neanche vuole vedere quel che succede a Pomigliano. Il dio mercato è diventato anche per loro il regolatore generale che non ammette variabili indipendenti. La sinistra parlamentare non guarda nei call center, o all’università, o nel mondo giovanile a cui è interdetta la possibilità di crearsi un futuro e di accedere a un lavoro se non a condizioni schiavistiche e ricattatorie. Non guarda al trasporto che è diventato un bene di lusso per pochi, perché solo i capitali e i capitalisti possono muoversi liberamente. Gli altri restino a terra. Viva la Tav e abbasso i treni dei pendolari. L’Italia pagherà le multe all’Unione europea perché gli autobus che girano nelle nostre città sono i più vecchi e inquinanti del continente, e la politica non ha nulla da dire quando la Fiat decide di chiudere l’unica fabbrica di autobus italiana per andare a costruire altrove.
Inutile far finta di non sapere per chi suona la campana. Ieri a Roma hanno parlato operai, tecnici, ricercatori, studenti, precari, il popolo No-Tav rappresentato da una sindaca della Valsusa e tanti altri. Quel che succede a Pomigliano non è diverso da quel che sta per succedere o già succede in tutta la società italiana. Bisogna tagliare il filo spinato che stanno stringendo intorno alla Fiom come ai cantieri dell’Alta Velocità.
Come ha detto Maurizio Landini, sbaglia chi si riscalda per i tre delegati persi dalla Fiom a Melfi e non va ad abbracciare gli altri duecento delegati Fiat che non hanno gettato la spugna e ancora stringono in pugno orgogliosamente la loro tessera. Sono quelli che scelgono di abbassare gli occhi al cospetto della moglie e dei figli a cui non riescono più a garantire una vita decente, pur di non abbassare la testa di fronte a Marchionne. Sono quelli che hanno imparato l’insegnamento di Giuseppe Di Vittorio, quando diceva ai lavoratori di non togliersi il cappello al cospetto del padrone. Dopo gli anni Cinquanta sono arrivati i Sessanta, non per grazia ricevuta ma grazie alla tenacia e alle lotte dei lavoratori che più volte salvando la propria dignità hanno salvato la democrazia. Il 9 febbraio la campana suona anche per noi. La lotta che stanno facendo i compagni del manifesto, è stato detto ieri dal palco dell’Atlantico gremito fino all’inverosimile, è la nostra stessa lotta. Questo fa sentire la Fiom e il manifesto meno soli, e un po’ più forti.
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