“Meno diritti per tutti”, meno salrio, meno aspettative di vita, meno benessere. “Per tutti”?. No. Solo per i lavoratori dipendenti, quindi anche per quelli pubblici. Il mondo da incubo di un ministro caduto sulla terra direttamente da un manuale di macroeconomia liberista.
«Licenziare gli statali è equo»
Il ministro dei licenziamenti, Elsa Fornero, ha colpito ancora. E ancora una volta invade il campo con il suo ditino alzato ad ammonire che – in nome naturalmente dell’«equità» – anche i lavoratori pubblici debbono poter liberamente essere licenziati, così come potrà accadere nel settore privato non appena entrerà in vigore la controriforma del mercato che lavoro, che cancella di fatto l’art. 18.
Il suo collega della funzione pubblica, Filippo Patroni Griffi, pur impegnato ad assicurare che «il decreto è sostanzialmente pronto», che se «ci sono un po’ di contrasti», aveva appena chiarito che l’attesa delega sulla riforma del lavoro nel pubblico impiego «non conterrà una disposizione specifica sui licenziamenti disciplinari, ma si rimetterà al Parlamento». Il nodo era apparso complicato fin dall’accordo con i sindacati del pubblico impiego, in cui la questione della licenziabilità compariva sotto la voce «per motivi disciplinari», non potendo ovviamente lo Stato invocare quelli «per motivi economici». Ma proprio nella differente motivazione di nascondeva il diavolo giuridico: se un giudice dovesse riconoscere l’indennizzo a un dipendente pubblico ingiustamente cacciato via, chi dovrebbe pagarlo?
Ieri mattina Patroni Griffi l’ha messa giù con chiarezza: «se si prevede la responsabilità del dirigente a pagare un eventuale indennizzo, non avremo più un licenziamento; se invece non si prevede la responsabilità del dirigente, a quel punto paga Pantalone e va a carico della comunità». Un ragionamento, come si vede, che non si avventura neppure sul terreno minato dell’«equità» o della giustizia morale.
La sua collega, invece, ha usato addirittura una contestazione di disoccupati nei suoi confronti (una costante che viene affidata sempre più spesso alla sola polizia), per rivendicare il diritto – come «ministro anche delle pari opportunità» – di intervenire su tutto. «Tenuto conto delle specificità del pubblico impiego auspico parità di trattamento tra i lavoratori del settore privato e quelli del settore pubblico». Non ritenendo sufficiente questa sortita, l’ha accompagnata con un pistolotto sul tema «abbiamo vissuto per troppo tempo sul debito, facendo finta che stavamo bene»; per concluderne con un un «dovete avere un minimo di fiducia» nel governo. Perché «non è vero che il governo sta portando alla fame la gente» e «quel che ho fatto l’ho fatto per gli italiani».
Fino al definitivo «possiamo anche avere sbagliato, ma non abbiamo mai mentito». Frase che sembra difficile sottoscrivere se, nella stessa mattina, da un lato si dà vita a uno scontro non usuale all’interno del governo, e dall’altro si nega che questo conflitto esista. Per non dire delle tante questioni «di merito» su cui il ministro si è smentito in proprio (per esempio, e a più riprese, sul numero dei lavoratori «esodati»).
In serata i due ministri hanno diramato una nota congiunta sull’obiettivo del decreto («migliorare e rendere più efficiente la pubblica amministrazione»). I licenziamenti sono confernati, ma come «sanzione, e possono essere un deterrente» (come era l’art. 18, dal lato opposto). «Dunque sono uno strumento, ma non l’unico». Una conferma sostanziale, insomma.
Ma è sul concetto di «equità» disegnato da Fornero che prima o poi bisognerà interrogarsi, pur sapendo che la situazione attuale è un risultato di processi di lungo periodo che non hanno visto soltanto il ministro Fornero come protagonista (anche se, come commentatrice de Il Sole 24 Ore, aveva spesso plaudito alle precedenti «riforme del lavoro» o delle «pensioni», magari criticandole per l’eccessiva moderazione). Nel corso degli ultimi venti anni, infatti, sono state create una serie di differenziazioni pesantissime tra categorie di lavoratori, sia sul piano salariale che dei diritti («pacchetto Treu», «legge 30», varie «riforme delle pensioni», ecc); naturalmente per «favorire la crescita» e «creare opportunità per i giovani».
Al termine si questo percorso, che ha prodotto solo crisi, disoccupazione e salari da fame, si «scopre» che c’è ancora qualcuno dotato di qualche tutela sociale. Togliamogliela, e «giustizia» sarà fatta.
Ieri mattina Patroni Griffi l’ha messa giù con chiarezza: «se si prevede la responsabilità del dirigente a pagare un eventuale indennizzo, non avremo più un licenziamento; se invece non si prevede la responsabilità del dirigente, a quel punto paga Pantalone e va a carico della comunità». Un ragionamento, come si vede, che non si avventura neppure sul terreno minato dell’«equità» o della giustizia morale.
La sua collega, invece, ha usato addirittura una contestazione di disoccupati nei suoi confronti (una costante che viene affidata sempre più spesso alla sola polizia), per rivendicare il diritto – come «ministro anche delle pari opportunità» – di intervenire su tutto. «Tenuto conto delle specificità del pubblico impiego auspico parità di trattamento tra i lavoratori del settore privato e quelli del settore pubblico». Non ritenendo sufficiente questa sortita, l’ha accompagnata con un pistolotto sul tema «abbiamo vissuto per troppo tempo sul debito, facendo finta che stavamo bene»; per concluderne con un un «dovete avere un minimo di fiducia» nel governo. Perché «non è vero che il governo sta portando alla fame la gente» e «quel che ho fatto l’ho fatto per gli italiani».
Fino al definitivo «possiamo anche avere sbagliato, ma non abbiamo mai mentito». Frase che sembra difficile sottoscrivere se, nella stessa mattina, da un lato si dà vita a uno scontro non usuale all’interno del governo, e dall’altro si nega che questo conflitto esista. Per non dire delle tante questioni «di merito» su cui il ministro si è smentito in proprio (per esempio, e a più riprese, sul numero dei lavoratori «esodati»).
In serata i due ministri hanno diramato una nota congiunta sull’obiettivo del decreto («migliorare e rendere più efficiente la pubblica amministrazione»). I licenziamenti sono confernati, ma come «sanzione, e possono essere un deterrente» (come era l’art. 18, dal lato opposto). «Dunque sono uno strumento, ma non l’unico». Una conferma sostanziale, insomma.
Ma è sul concetto di «equità» disegnato da Fornero che prima o poi bisognerà interrogarsi, pur sapendo che la situazione attuale è un risultato di processi di lungo periodo che non hanno visto soltanto il ministro Fornero come protagonista (anche se, come commentatrice de Il Sole 24 Ore, aveva spesso plaudito alle precedenti «riforme del lavoro» o delle «pensioni», magari criticandole per l’eccessiva moderazione). Nel corso degli ultimi venti anni, infatti, sono state create una serie di differenziazioni pesantissime tra categorie di lavoratori, sia sul piano salariale che dei diritti («pacchetto Treu», «legge 30», varie «riforme delle pensioni», ecc); naturalmente per «favorire la crescita» e «creare opportunità per i giovani».
Al termine si questo percorso, che ha prodotto solo crisi, disoccupazione e salari da fame, si «scopre» che c’è ancora qualcuno dotato di qualche tutela sociale. Togliamogliela, e «giustizia» sarà fatta.
da “il manifesto”
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